Il rione Conocal di Ponticelli, fortino inespugnabile del clan D’Amico, negli anni in cui l’organizzazione ricopriva un ruolo influente nell’ambito dello scenario camorristico locale, veniva difeso alacremente dagli attacchi di tutti i tipi. Non solo da quelli messi a segno dai clan rivali, ma anche dalle incursioni delle forze dell’ordine: i primi, veri nemici dei malavitosi.
Quanto accaduto il 30 marzo del 2014 fornisce un quadro chiaro del clima che si respirava tra i grigi palazzoni tra i quali i D’Amico detengono saldamente il controllo degli affari illeciti. Almeno era così in quel momento storico. Erano gli anni della faida contro i De Micco, una sanguinaria guerra di camorra combattuta senza esclusione di colpi e che in quel periodo stava facendo registrare una pericolosa escalation di sangue. Appena due mesi prima, il 27enne Carmine Aloia, genero del boss Antonio D’Amico, sposato con la primogenita del fondatore del clan, era scampato miracolosamente a un agguato, complice l’errore di mira compiuto dal killer che lo sorprese in auto proprio nel Conocal. Aloia riuscì a cavarsela con una ferita all’addome, ma il sentore che di lì a poco la faida in corso avrebbe fatto registrare altre fibrillazioni, induceva le forze dell’ordine a presidiare e controllare i rioni erti ad arsenali della camorra dai clan entrati in rotta di collisione per conquistare il controllo dei traffici illeciti.
Due mesi dopo il mancato agguato al genero del boss, una volante dell’Ufficio prevenzione generale della Questura di Napoli, finì nel mirino delle donne del clan che riuscirono ad ostruirne il lavoro per difendere Carmine Aloia, il genero del boss Antonio D’Amico.
La squadriglia di donne-sentinelle del clan, si limitò prima a monitorare a distanza l’operato dei poliziotti, per poi sbucare improvvisamente, cogliendo di sorpresa i poliziotti che si videro accerchiati in un batter d’occhio da un commando di donne che gli rivolse una caterva di insulti e minacce. Un’azione inscenata con un intento ben preciso: consentire la fuga di Carmine Aloia, il genero del boss Antonio D’Amico alias Tonino fraulella.
In quel momento storico, il ruolo ricoperto dalle donne- vedette del Conocal era quello di proteggere gli uomini del clan da qualsiasi tipo di pericolo, a ogni costo.
Gli agenti, presi alla sprovvista, chiamarpno i rinforzi, mentre Aloia per dileguarsi spinse con violenza uno dei due poliziotti e, protetto dal cordone di donne confluito per difenderlo e agevolarne la fuga, riuscì a svincolarsi.
E’ la cronaca di un mancato arresto, anche se una volta ripristinata la calma, la polizia riuscì a svolgere una serie di perquisizioni.
Teatro dell’accaduto: via al Chiaro di Luna, la strada che accoglie le abitazioni dei vertici della cosca nel Rione Conocal di Ponticelli.
La volante dell’Ufficio prevenzione generale, diretto dal vice questore Michele Spina, stava effettuando dei controlli antidroga quando notò Carmine Aloia, ventisettenne pregiudicato genero del boss detenuto Antonio D’Amico. Volto noto alle forze dell’ordine, soprattutto perchè pochi mesi prima era finito nel mirino dei killer del clan rivale, riuscendo a scampare fortunosamente la morte. La polizia lo bloccò con l’intento di condurlo in ufficio, ma le donne del clan, quando fiutarono il pericolo al quale era esposto uno degli uomini al vertice dell’organizzazione, inscenarono la loro rivolta. Una ventina, inferocite, accerchiarono la volante e iniziarono ad inveire contro i poliziotti. Forte del supporto sopraggiunto in maniera provvidenziale, anche Aloia iniziò ad insultare gli agenti, poi approfittò della concitazione per divincolarsi e sparire. In seguito all’arrivo dei rinforzi, i poliziotti perquisirono casa di Aloia e trovarono un sistema di videosorveglianza a circuito chiuso. Due giorni prima, nella stessa zona, la polizia durante i controlli aveva sequestrato oltre un chilo di droga e una quarantina di proiettili.
Un arresto solo rimandato: anche il nome di Carmine Aloia finisce nel fitto elenco di soggetti finiti in carcere a giugno del 2016, nell’ambito dell’operazione Delenda che di fatto decapitò il clan D’Amico. Il genero del boss Antonio D’Amico, tra le tante cose, viene accusato di gestire insieme a sua moglie e a sua suocera la “celeberrima” piazza di “Padre Pio”: la piazza di marijuana e cocaina radicata in via al Chiaro di Luna, nei pressi della statua del frate di Pietrelcina, stimata essere la più redditizia della cosca, tant’è vero che negli anni in cui nel Conocal si registrava la presenza di dozzine di piazze di spaccio, regnava la macabra convinzione che quella istituita a ridosso della statua di Padre Pio beneficiasse della “benedizione” del Santo che proteggeva e preservava gli affari, assicurando ingenti guadagni ai D’Amico.
Aloia è stato condannato a 17 anni e 4 mesi nel 2017, ma la sua posizione si aggrava nel 2018, quando insieme ad altri soggetti ritenuti contigui al clan D’Amico, finisce negli atti di un’indagine che appurò la presenza sul territorio di un’organizzazione criminale che oltre alle attività legate allo spaccio di sostanza stupefacente ed all’usura, imponeva a molti spacciatori, non legati all’egemonia criminale, di pagare delle quote ai vertici del nuovo sodalizio. Le attività usurarie venivano supportate anche attraverso minacce, mentre la vendita di stupefacenti, oltre che al minuto, veniva anche eseguita all’ingrosso e fuori dal Comune di Napoli.