A dispetto dei suoi 31 anni, Roberto Boccardi detto “recchiolone” per via delle orecchie a sventola è una delle figure camorristiche più temute dell’era post-Sarno a Ponticelli. Una fama conquistata al soldo dei De Micco, andando a costituire lo zoccolo duro di quella paranza di giovanissimi che in seguito al pentimento dei boss del rione De Gasperi, seminarono spari, sangue, morti, collezionando azioni efferate. Motivo per il quale destò non poco scalpore il suo cambio di casacca, negli anni in cui i De Micco si videro costretti a cedere il controllo del territorio al cartello camorristico costituito dai vecchi clan di Napoli est: i Minichini-De Luca Bossa, i Casella, “le pazzignane”, ma anche gli Aprea di Barra e i Rinaldi di San Giovanni a Teduccio. Boccardi non si fece scrupoli a passare dalla parte degli osteggiatori dei De Micco, complice una relazione sentimentale con Martina Minichini, sorellastra di Michele ed Alfredo Minichini e cugina di Umberto De Luca Bossa.
A chiarire lo spessore camorristico di Roberto Boccardi alla magistratura è il collaboratore Tommaso Schisa, un tempo perno portante di quell’alleanza che lo indica come una persona molto pericolosa, rivelando anche che Michele Minichini, mentre era detenuto, si servì di lui per controllare “il cinese” ovvero Francesco Audino, figura apicale dell’alleanza, unitamente a Antonio Acanfora e Ciro Imperatrice. Una fiducia che Minichini gli riconosceva soprattutto per effetto del legame sentimentale che intercorreva con sua sorella Martina, sicuro del fatto che avrebbe curato gli affari di famiglia. E in effetti, per espresso volere di Michele Minichini, Boccardi affiancò il cinese nella gestione della cassa del clan, perchè quest’ultimo non era puntuale nel pagamento degli stipendi ai detenuti. Michele Minichini riponeva grosse aspettative in Boccardi, a tal punto da designarlo suo erede e sostituto: “se esce Roberto sai quante mazzate gli da”, esclama mentre svolge un colloquio in carcere.
Negli anni in cui fu tra i protagonisti della faida per il controllo del territorio che vide i De Micco osteggiare i D’Amico, Boccardi sparò nella pancia a Carmine Aloia, il convivente della figlia del boss Antonio D’Amico e figura di spicco del suddetto clan. Un agguato del quale Schisa fu messo al corrente dallo stesso Aloia, suo lontano parente.
Schisa rivela soprattutto le reali intenzioni di Michele Minichini e dell’intera alleanza: uccidere Boccardi, in quanto ritenuto inaffidabile per via della sua pregressa affiliazione ai De Micco. Del resto, la relazione tra Boccardi e la Minichini era instabile in quanto, durante il periodo in cui recchiolone era detenuto, la donna si era legata sentimentalmente ad un altro giovane elemento di spicco della mala ponticellese. Contestualmente alla scarcerazione di Boccardi, in pieno lockdown, nel rione Lotto o andò in scena una festa in pompa magna con tanto di fuochi d’artificio, brindisi e cantanti neomelodici, a riprova della grande considerazione di cui beneficiava e delle grandi aspettative riposte in lui dall’organizzazione. In quel frangente, pree il via anche un concitato triangolo amoroso, scaturito dall’incertezza della Minichini che partecipò alla festa in onore di Boccardi, scatenando l’ira dell’altro pretendente. In questo clima maturarono una serie di “stese”, ufficialmente riconducibili alla disputa amorosa in atto, ma che concorsero anche a sedare la brama di potere del nuovo aspirante leader del quartiere, destinato ad avere la peggio su tutti i fronti. Complici le pressioni esercitate in tal senso dai fratelli in carcere, infatti, la Minichini sarebbe tornata insieme a Boccardi. Un ritorno di fiamma annunciato mostrandosi pubblicamente in moto insieme per le strade del quartiere. Un atteggiamento che scatenò l’ira del pretendente rifiutato.
Schisa rivela ai magistrati la sua ferma intenzione di uccidere Boccardi, perchè aveva saputo che quando era al soldo dei De Micco, aveva minacciato sua madre puntandole la pistola al volto per esigere il pagamento della tangente sulla piazza di droga che gestiva nel Rione De Gasperi.
L’ex affiliato al clan De Micco-De Martino, oggi collaboratore di giustizia, Rosario Rolletta riferisce un altro episodio significativo: nell’ottobre del 2020, quando era già avvenuta la scissione dei De Martino dai Minichini-De Luca Bossa-Casella, Boccardi si presentò nell’appartamento disabitato, ubicato nello stabile in cui vive Salvatore De Martino nel rione Fiat per esternare tutto il suo disappunto circa il comportamento di Giuseppe De Luca Bossa, in quel momento storico reggente dell’organizzazione. Boccardi riferì ai De Martino che Peppino ‘ o sicco era “arrogante e voleva decidere tutto lui”, aggiungendo che sarebbe stato disposto ad unirsi a loro. Un atteggiamento mal visto da Rolletta, convinto che Boccardi stesse facendo il doppio gioco.
Nell’ottobre del 2020, quando la faida tra i De Martino e i clan alleati era ormai nel vivo, Boccardi viene arrestato insieme a Mario Sorrentino e Umberto De Luca Bossa per l’estorsione perpetrata ai danni di una donna alla quale il clan cercò di togliere la casa. Un atto vile, scaturito in seguito agli atti di bullismo subiti dal figlio minore della donna, portatore di handicap, da parte del figlio di un affiliato al clan. Nacque così una lite, recepita come una mancanza di rispetto dai vertici del clan, in realtà intenzionati ad implementare il business delle case popolari. Una processione di moto si presentò nei pressi dell’abitazione della donna imponendole di recarsi nel Lotto O per lasciare al clan le chiavi dell’alloggio popolare a lei regolarmente assegnato e nel quale viveva con suo figlio. Quando la donna si recò in un centro scommesse del Lotto O al cospetto dei tre ras per risolvere bonariamente la questione, le fu imposto di versare al clan la somma di cinquemila euro per continuare a vivere in casa sua. Al diniego della donna seguirono una serie di tentativi di occupazione coatta dell’abitazione. Un incubo terminato con l’arresto dei tre accusati di tentata estorsione.
Boccardi, detenuto a Secondigliano nella stessa cella di Umberto De Luca Bossa, continuava ad impartire direttive, proprio insieme al reggente del clan del Lotto O, servendosi di un telefono cellulare utilizzato da entrambi. Ignari di essere intercettati, Roberto Boccardi e Umberto De Luca Bossa hanno continuato ad indirizzare indicazioni agli affiliati, tant’è vero che Boccardi dalla cella della carcere in cui era detenuto, ha preservato il controllo della zona in cui si trova la sua abitazione: il lotto 11, il rione compreso tra via Botteghelle, via Molino Salluzzo e via Molino dei Cordari, grazie al supporto di quelli che vengono definiti per l’appunto “i ragazzi di Roberto”: suo cugino Giovanni Palumbo detto “il piccione”, il suocero di quest’ultimo Francesco Clienti detti Tatà, Ciro Ricci detto il panino, Ivan Ciro D’Apice, Antonio Pipolo, Davide Tomi, Nicola Onori e Bruno Solla, il ras del Lotto O ucciso di recente.
Particolarmente significativo quanto accaduto tra dicembre 2020 e gennaio 2021 quando Boccardi entra in conflitto con Gino Austero, la nuova fiamma della sua ex Martina Minichini, dando il via ad una serie di dissidi scaturiti da rancori personali che però si ripercuotono sugli interi equilibri criminali del quartiere, arrivando a coinvolgere l’intero gruppo dei “ragazzi di Roberto” che in particolare entra in rotta di collisione con Giuseppe Righetto, reggente del clan Casella.
Dissidi che trapelano nitidamente dalle conversazioni intrattenute con Giovanni Palumbo, il quale specifica a suo cugino l’intenzione di Righetto di estrometterlo dalla gestione degli affari illeciti bramando di ucciderlo. “Si dice che fecero questa tavola là sopra (organizzarono una riunione, ndr) … e dissero che tu… troppo bordello… e ti volevano togliere di mezzo! Possa morire mio figlio!”
“Aprite gli occhi e non fidatevi di nessuno e non fate mai sapere i pensieri con questa gente”, la replica di Boccardi. Nell’ambito della stessa conversazione, Ivan Ciro D’Apice manifesta sudditanza a Boccardi dichiarando al contempo di rifiutarsi di schierarsi con altri affiliati in seguito al suo arresto, considerandolo leader indiscusso. Dal suo canto, Boccardi conferma la forte volontà di tenersi stretti “i suoi ragazzi” per continuare a preservare il controllo del territorio.
Suo cugino Giovanni lo informa costantemente rispetto all’evoluzione delle dinamiche camorristiche consentendogli così di preservare la leadership. Una pedina fedele e preziosa della quale Boccardi si serve per dettare tempi, ordini e strategie. Dai dialoghi tra i due cugini trapela la volontà di dissociarsi dal cartello facente capo ai De Luca Bossa per creare un gruppo autonomo, unitamente ai contrasti sorti con Luigi Austero e Alfredo Minichini. Nella fattispecie, anche Umberto De Luca Bossa riferisce al suo braccio destro Alessandro Ferlotti che Boccardi aveva inveito contro suo suo zio Domenico Gianniello, Alfredo Minichini e sua sorella Martina. Un fatto mal recepito da Luigi Austero, soprattutto perchè si sarebbe aspettato che Umberto De Luca Bossa, cugino della Minichini, si mostrasse distaccato agli occhi di Boccardi, facendogli pesare la mancanza di rispetto indirizzata ai membri della sua famiglia. Dal suo canto, invece, Boccardi spiega al cugino Giovanni Palumbo di avere Umberto dalla sua parte, in quanto palesemente spaventato all’idea di essere il primo a rischiare di subire un pestaggio, in virtù delle tensioni esistenti tra il suo compagno di cella e i suoi parenti.
Le frizioni registrate in carcere, come detto, sortiscono effetti anche all’esterno, tant’è vero che Giuseppe Righetto – in quel momento storico reggente del clan insieme a Luigi Austero – si presenta da Giovanni Palumbo pretendendo che gli consegni i 200 euro destinati al mantenimento di Boccardi, ma viene messo alla porta: “Sognateli i soldi, perchè i soldi a mio cugino li diamo noi, di tasca nostra”. Righetto esige spiegazioni rispetto agli insulti che Boccardi aveva indirizzato anche a in carcere, precisando che a differenza di quest’ultimo che in passato aveva picchiato sua madre, lui non aveva mai assunto condotte irrispettose nei suoi riguardi, precisando che se qualora gli altri detenuti gli avessero nuovamente riferito di altri insulti indirizzati alla sua persona, avrebbe sfogato la sua ira sul fratello di Roberto Boccardi. Con fierezza quest’ultimo racconta a suo cugino Giovanni Palumbo di aver offeso Righetto, ma anche Luigi Austero e Alfredo Minichini definendoli “una razza di infami”. Palumbo suggerisce al cugino di restare calmo, auspicando che a breve lui e i suoi fedelissimi avrebbero assunto il controllo degli affari illeciti a Ponticelli: “Ora devi stare solo calmo perchè questi qua ci vogliono tirare con loro, ma tra poco viene tutto il brodo a noi (gli affari illeciti li gestiremo noi, ndr)”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Francesco Clienti, suocero di Palumbo, che nel corso di una conversazione telefonica intrattenuta con Boccardi ugualmente riconosce la sua leadership precisando di aver chiarito anche ai Casella-De Luca Bossa che lui era a capo dell’organizzazione, a prescindere dagli altri affiliati in libertà: “tu sei testa e non coda… io gliel’ho detto a quelli di lì giù… esce Mimmuccio (Domenico Amitrano, ndr), esce Roberto è sempre capo Roberto! ricordatevelo!… Roberto può uscire pure… sempre capo è!…esce Mimmuccio, è capo Roberto è capo!” Inoltre Clienti sprona Boccardi a difendere i loro interessi criminali, conferendo a Palumbo un ruolo di maggiore spessore.
Le ruggini tra Boccardi ed Austero tuttavia proseguirono sia a gennaio che a febbraio del 2021 e videro “i ragazzi di Roberto” difendere il controllo della zona da lui capeggiata attuando una serie di schermaglie ed azioni dimostrative, servendosi anche dei social. Indicativa in tale ottica, la foto pubblicata da Clienti su Instagram che lo ritrae in compagnia degli “ragazzi di Roberto”, accompagnata da una frase esplicita: “Dammi rispetto ed io ti rispetterò sempre. Altrimenti sai già come la penso.”
Contestualmente alla scarcerazione di Marco De Micco, tuttavia, “i ragazzi di Roberto” sono diventati “i ragazzi di Marco”, così come comprova il blitz che ad aprile del 2022 ha tratto in arresto il boss insieme a Giovanni Palumbo e Ciro Ricci, accusati di aver partecipato all’omicidio di Carmine D’Onofrio, il figlio naturale del boss Giuseppe De Luca Bossa. Gli altri membri della cosca sono andati incontro allo stesso destino sette mesi dopo, proprio per effetto dell’esito delle indagini relative ai fatti fin qui esposti. L’unico che riuscì a sottrarsi alle manette fu Ciro Ivan D’Apice, arrestato poco prima di Natale in una cittadina piemontese dove aveva trovato protezione e rifugio presso l’abitazione di una parente.