Alfredo Minichini ha trascorso in carcere buona parte dei 32 anni che festeggerà il prossimo dicembre e secondo quanto emerso dall’ordinanza che lo ha raggiunto di recente, pare destinato a trascorrere in regime detentivo molti altri anni ancora.
Figura apicale dell’alleanza costituita dalle vecchie famiglie camorristiche di Napoli est e del clan di famiglia, al pari di suo fratello Michele, il temutissimo “tigre”: un soprannome e una fama conquistate a suon di azioni efferate e rigorosamente plateali, questa la principale diversità che emerge dalle condotte dei due fratelli Minichini, cresciuti a pane e camorra perseguendo il comune intento di riportare in auge il cognome della famiglia per inorgoglire il fondatore dell’omonimo clan, il padre Ciro Minichini detto Cirillino, detenuto da tempo immemore, braccio destro di Antonio De Luca Bossa. Un legame rinsaldato dall’unione con la sorella di quest’ultimo con la quale ha messo al mondo due figli, nonchè fratellastri di Michele ed Alfredo: Martina, anche lei pienamente addentrata nelle dinamiche camorristiche dell’organizzazione e Antonio, ucciso all’età di 19 anni dai sicari del clan De Micco. Una morte violenta che ha giocato un ruolo cruciale nel determinare le dinamiche criminali che si sono avvicendate nell’ultimo decennio tra le strade dell’intera periferia orientale partenopea. Quelle strade che i fratelli Minichini hanno ripetutamente contribuito a macchiare di sangue seguitando a perseguire un obiettivo ben preciso: vendicare la morte del fratellastro Antonio.
Un intento che Michele ‘o tigre ha sottolineato alla sua maniera, tatuandosi sul petto il volto del fratellastro defunto accompagnato da una frase in spagnolo: “verrà il giorno della vendetta”. Un obiettivo che ha ugualmente animato le gesta di Alfredo Minichini che però ha covato quella brama silenziosamente. Mentre Michele finisce spesso al centro dell’attenzione, complice un modus operandi che non può passare inosservato, Alfredo colleziona gesta ugualmente violente, ma seguitando a mantenere un profilo basso. Una diversità sottolineata anche da altri affiliati al clan, convinti del fatto che Alfredo disponesse di una tempra camorristica assai più solida rispetto a quella di Michele, al quale per l’appunto riconoscevano il merito di sapersi mettere in mostra e per questo più abile a rubare la scena al fratello. “Michele è cagasotto, Alfredo s’impone” e ancora “Alfredo ha la stessa cazzimma del padre”.
A differenza di Michele, suo fratello Alfredo evita di frequentare i social. Niente foto per annunciare alleanze ed ostentare sfarzo e ricchezza. Alfredo mira a passare inosservato per beneficiare di una certa discrezione.
A ricostruire il suo ruolo nell’ambito dello scenario camorristico della periferia orientale di Napoli hanno contribuito soprattutto i collaboratori di giustizia che indicano Alfredo Minichini come un soggetto dedito alla riscossione delle tangenti, tra i principali protagonisti della guerra con i Mazzarella per il controllo degli affari illeciti nella zona di Piazza Mercato. In seguito all’arresto di suo fratello Michele era subentrato al suo posto, ricoprendo un ruolo cruciale all’interno del clan disponendo anche di un certo potere decisionale.
Insieme a suo fratello Michele, Alfredo mette in piedi una paranza di giovanissimi, comunemente indicati come “i ragazzi di Alfredo e Michele”, un gruppo di fuoco, costituito da soggetti spregiudicati, tra i quali fin da subito spicca Alessio Bossis, una delle reclute più fedeli e servili ad Alfredo Minichini, tant’è vero che quest’ultimo punta tutto su di lui quando viene arrestato, designandolo come suo erede, collocandolo così ai vertici della piramide del male costituita dall’alleanza tra i vecchi clan di Napoli est. Un’investitura importante, quella riconosciutagli da Alfredo Minichini e che matura quando Bossis non ha ancora neanche raggiunto la maggiore età. A riprova di quanto fosse determinante il ricoperto da Bossis in quel momento storico, vi è la confidenza che il giovane ucciso lo scorso ottobre fa ad un altro affiliato: avrebbe ricevuto in regalo la somma di duemila euro, quale forma di riconoscimento per le sue qualità criminali.
Le rivelazioni più importanti provengono da chi Alfredo Minichini lo conosceva bene: Tommaso Schisa, perno portante del suo stesso clan d’appartenenza. Lo stesso Minichini si attiva immediatamente, nel carcere in cui sono reclusi entrambi, per indurlo a ritrattare.
In riferimento all’omicidio Colonna-Cepparulo per il quale sono state condannate all’ergastolo diverse figure apicali dell’alleanza, tra le quali anche Michele Minichini, l’ex affiliato alla cosca, oggi collaboratore di giustizia Tommaso Schisa rivela che sua zia Gabriella Onesto e Alfredo Minichini sono stati “graziati”: a rivelarlo a Schisa fu lo stesso Alfredo Minichini durante un colloquio in carcere. Alfredo Minichini era insofferente nei riguardi di Cepparulo che aveva compiuto diverse “stese” presso la sua abitazione e pertanto appoggiò il piano di morte ordito dal suo clan di appartenenza nel quale perse la vita anche il 19enne Ciro Colonna, estraneo alle dinamiche camorristiche.
In merito alla ritrattazione del pentito Raffaele Romano, deceduto in carcere lo scorso gennaio, Alfredo Minichini riferì a Schisa che gli avevano garantito uno stipendio mensile pari a duemila euro.
Se in carcere i due dividevano anche un telefono cellulare, prima di ritrovarsi entrambi dietro le sbarre, i loro rapporti erano decisamente più ostili. Non solo perchè Alfredo Minichini picchiò il cognato di Tommaso Schisa, reo di aver avuto una lite per futili motivi con i ragazzi del clan De Martino senza la sua autorizzazione: quello fu solo uno dei tanti episodi che portò Schisa, mentre era in libertà, a prendere in considerazione l’idea di uccidere Alfredo Minichini, spalleggiato da suo cugino Pasquale Damiano.
Michele Minichini era per Tommaso Schisa un vero e proprio fratello con il quale ha condiviso tutto, dai reati ai segreti più reconditi, unitamente al forte desiderio di marcare la scena camorristica da leader; ben altro sentimento, invece, quello che nutriva per Alfredo Minichini. Una figura scomoda verso la quale, probabilmente, covava anche una sorta di gelosia, in virtù del legame di sangue che lo univa a Michele, quel fratello acquisito al quale era profondamente attaccato. Schisa ipotizzava che anche Alfredo, dal suo canto, potesse bramare lo stesso piano, in quanto non aveva mai fatto nulla per nascondere il suo disappunto rispetto al fatto che la condotta poco prudente delle “pazzignane”, il cartello camorristico capeggiato da Luisa De Stefano, madre di Tommaso Schisa, avesse portato all’installazione di cimici che avevano consentito agli inquirenti di ricostruire in toto l’omicidio Cepparulo.
Schisa aveva in mente un piano ben preciso per sbarazzarsi del sodale e fratello del suo fedelissimo Michele: aspettare che scaturissero dei contrasti con i giovani affiliati al clan De Martino per far ricadere la colpa dell’omicidio di Alfredo Minichini su di loro.
Rosario Rolletta, ex affiliato al clan De Micco-De Martino, racconta che i fratelli Minichini erano operativi anche a Cercola, comune del vesuviano confinante con Ponticelli. Alfredo Minichini impose ai gestori delle piazze di droga ubicate in quella sede di versare la tangente alla moglie di un affiliato detenuto, affinchè i proventi dello spaccio potessero contribuire al suo mantenimento in carcere. Si trattava di un soggetto contiguo ad un clan operante nei comuni vesuviani e legato a filo doppio al cartello capeggiato da Alfredo Minichini in quel momento storico, in quanto nelle casse del clan rappresentato da quest’ultimo l’organizzazione era tenuta a versare i proventi di tutte le attività illecite praticate a Cercola, mentre non gravava alcun tipo di onere sui guadagni relativi alle analoghe attività svolte negli altri comuni vesuviani.
Anche durante la detenzione Alfredo Minichini ha continuato a gestire gli affari del clan, così come comprovano i tantissimi colloqui intercettati in carcere dai quali trapela la complicità di sua moglie Luigia Cardillo, oltre che della sorella Martina Minichini. Dalla volontà di “zittire” i collaboratori di giustizia per sventare i pericoli che potevano scaturire dalle loro rivelazioni, così come effettivamente è accaduto, alle lamentele continue circa la gestione degli stipendi ai detenuti, l’impellente e perenne necessità di galvanizzare Bossis, il suo erede, affinchè continuasse a preservare gli interessi del clan, la lite con Roberto Boccardi, ex fidanzato della sorella Martina. Una condotta che ha concorso ad aggravare la sua posizione e che lo vede costretto in carcere, al pari di suo fratello Michele, di suo padre Ciro e di sua sorella Martina.