Quanto accaduto a Mergellina intorno alle 2.30 di lunedì 20 marzo ha indignato e sconvolto l’Italia intera. L’omicidio di un 18enne incensurato ed estraneo alle dinamiche camorristiche, maturato nell’ambito di una lite tra due bande provenienti da due quartieri differenti, collocati sui versanti opposti della città. Una sul fronte occidentale, quella proveniente dal Rione Traiano, l’altra sul versante orientale, quella proveniente da San Giovanni-Barra, alla quale apparteneva Francesco Pio Valda, il 20enne fermato con l’accusa di omicidio aggravato dal metodo mafioso. Un aggravante riconosciuta non solo per il contesto familiare di provenienza del 20enne, ma anche per le dinamiche associate all’omicidio del 18enne Francesco Pio Mormone, rider di professione con un passato da fabbro, incensurato e intenzionato a coronare il sogno di aprire una pizzeria tutta sua.
Un punto di non ritorno, probabilmente scaturito da uno scenario ben preciso che per ragioni ancora tutte da accertare, da diverso tempo, spingerebbe squadriglie di ragazzi armati a battere la zona degli chalet del lungomare Caracciolo, uno dei luoghi più gettonati della movida napoletana, soprattutto tra i giovanissimi.
Appena un mese fa, un amico di Valda, nonchè rampollo di una famiglia camorristica di Barra è stato arrestato proprio sul lungomare Caracciolo, insieme ad altri tre giovanissimi, in circostanze alquanto atipiche. I quattro erano a bordo di un’auto, nel transitare accanto ad una vettura in sosta – ignari che all’interno vi fossero dei carabinieri in abiti borghesi – uno dei passeggeri è sceso e si è chinato all’altezza del finestrino, come se fosse a caccia di qualcuno, per poi ritornare in auto. Quando la vettura è ripartita, i militari li hanno inseguiti e all’interno dell’auto hanno rinvenuto una pistola.
Per questo motivo, Emmanuel Aprea, 18 anni, figlio del boss Gennaro Aprea detto ‘o nonno, da circa un mese si trova in carcere.
Due episodi a distanza ravvicinata che hanno per protagonisti due amici, appartenenti a due famiglie camorristiche operanti a Barra e che negli ultimi tempi avrebbero condiviso molto di più di una semplice passeggiata sul lungomare di Napoli. Da qualche mese, Valda si era avvicinato alla paranza costituita dalle giovani leve del clan Aprea, assai legata anche ad Alessio Bossis, il 22enne aspirante leader della camorra ponticellese ucciso in un agguato lo scorso 24 ottobre. A confermare il rapporto che intercorreva tra il rampollo di casa Aprea e Bossis è lo stesso Aprea junior sul suo profilo TIkTok, rispondendo a tono al commento apparso in coda al video-tributo che ha pubblicato poche ore dopo l’omicidio del 22enne.
“Avanti il prossimo”, scrive un utente sconosciuto, affrancando alla frase una sfilza di smile che sorridono.
“Mi raccomando venite con i carrarmati da me”, replica Emmanuel Aprea che ha poi rimosso il commento.
Non si tratta di un caso isolato. Molto spesso le liti tra “bande”, soprattutto quelle composte da giovani in odore di camorra, nascono sui social a suon di botta e risposta di questo tipo e poi sfociano nel sangue, quando si incontrano nei contesti come il lungomare di Mergellina. “Un campo neutro”, erto a teatro degli scontri dalle logiche che ispirano le gesta di questi ragazzi. Poco importa se si tratta di ragazzi dello stesso quartiere, ma affiliati a clan diversi o gruppi appartenenti a realtà distanti solo geograficamente.
Un tempo, quando i camorristi si lasciavano ispirare dal “codice d’onore”, recarsi armati in un quartiere o in una zona controllata da un altro clan veniva recepito come un affronto, una mancanza di rispetto. Ancor più se era necessario incontrarsi su un campo neutro per sedare acredini e conti in sospeso, la presenza delle armi era severamente vietata.
Un falso mito forse, uno dei tanti che accompagna le leggende associate ai fatti di camorra, l’unico dato certo è che il credo criminale forgiato dalle gesta dell’ultima generazione allevata da mamma-camorra denota una serie di caratteristiche allarmanti, perchè traccia l’identikit di giovani feroci, incapaci di contenere aggressività e impulsività, anzi. Sempre più frequentemente appaiono propensi a dare libero sfogo alla violenza, anche senza un motivo o per un futile motivo. Proprio com’è successo nella notte tra domenica e lunedì.
Ancor più allarmante è il quadro che trapela esaminando i profili social dei guerriglieri islamici di casa nostra, perchè pronti a morire pur di servire la camorra. L’ergastolo, le condanne che inchiodano “i leoni in gabbia” al carcere a vita diventano delle bandiere da esibire, al pari dell’ostentazione dell’omertà e degli insulti indirizzati ai pentiti, coloro che rinnegando “le leggi del sistema” hanno perso la faccia e meritano di essere umiliati e scherniti.
L’abuso di alcool e droghe altro non fa che esasperare quel senso d’onnipotenza e di incontrollabile esaltazione che determina il totale distacco dalla realtà, dove i miti ai quali ispirarsi sono personaggi mai realmente esistiti, come Tony Montana e Genny Savastano, oppure i boss che per mantenere in vita quel modello criminale sono morti in carcere, dopo aver trascorso la maggior parte della vita in carcere, come Totò Riina e Raffaele Cutolo.
Il potere, la consapevolezza di poter disporre della vita degli altri, camminando con “il ferro” in tasca, li rende delle mine vaganti, questo ormai è innegabile.
Per questi ragazzi un anno, un mese, fugaci periodi di tempo vissuti nello sfarzo e nel lusso sfrenato, grazie ai proventi degli affari illeciti, valgono una vita intera. L’assenza di spirito di sacrificio e del valore del denaro legittimano lo sperpero di soldi, perchè quei guadagni non sono frutto del sudore della fronte. E nel loro immaginario, un oggetto, come una sneakers costosa, vale più di una vita umana.