“Fraulella 1973”: il tatuaggio scalfito sul petto del primogenito di Annunziata D’Amico, al quale vengono aggiunte due emoticon, una bandiera e una fragola. Il senso d’appartenenza che ispira le gesta degli eredi del clan D’Amico è racchiuso in quest’immagine iconica.
Frauella è il soprannome del fondatore del clan: Antonio D’Amico, nato l’11 settembre 1973. Un soprannome poi esteso a tutti gli affiliati al clan, chiamati a mostrare fedeltà al clan tatuandosi quel nomignolo o in alternativa una fragola.
La fusione tra il soprannome e l’anno di nascita del fondatore dell’omonimo clan, altro non rappresenta che la firma, il biglietto da visita, il “marchio di fabbrica” dei D’Amico di Ponticelli che vantano uno “succursale” nel cuore del centro storico di Napoli. La famiglia D’Amico, originaria della zona di Montesanto, dirottò in parte nell’era del post terremoto a Ponticelli, nel Rione Conocal, uno dei plessi di edilizia popolare nato per fornire un alloggio ai terremotati e che ha così portato all’insediamento di famiglie camorristiche che dal centro storico cittadino si trasferirono all’ombra del Vesuvio.
La storia camorristica dei D’Amico, “i fraulella”, a Ponticelli inizia con Antonio D’Amico, come inequivocabilmente sottolinea “il brand” del clan. “Il clan D’Amico è nato con Tonino Faulella, grazie a Tonino Fraulella”: questo significa quella data scalfita accanto al soprannome distintivo dell’organizzazione camorristica. Boss, fondatore, ispiratore della nascita dell’omonimo clan, radicato nel Conocal, a suon di azioni efferate, sotto la cinica guida di Antonio D’Amico e di suo fratello Giuseppe, contornati da una sfilza di seguaci, tra i quali spicca il cognato Salvatore Ercolani, marito della sorella Annunziata oltre ad un nutrito gruppo di giovanissimi, galvanizzati dall’idea di marcare la scena camorristica da leader. Già perchè nel vuoto di potere scaturito in seguito al pentimento dei fratelli Sarno, “Tonino fraulella” legge un’opportunità da non lasciarsi scappare: vuole essere lui il nuovo boss di Ponticelli. Prende così il via una lunga e sanguinosa faida che miete dozzine di morti, soprattutto tra le reclute più giovani e inesperte, pecore mandate al macello per inseguire una chimera, soggiogate dall’utopistico sogno di conquistare una posizione autorevole nell’ambito del tortuoso scenario malavitoso locale. I D’Amico hanno cercato in tutti i modi di contrastare la forza dei De Micco, “una paranza” di giovani guidata da un boss nato dal nulla, ma capace di imporsi a suon di azioni efferate, macinando una mole consistente di soldi, utili a garantirgli armi ed affiliati, rispetto e consensi.
I sentimenti portanti che animano le gesta dei D’Amico sono principalmente riconducibili ad un’orgogliosa esaltazione, il senso d’appartenenza, l’irriverenza nei confronti dei rivali e l’impellente necessità di presentare il controllo dei traffici illeciti nel Rione Conocal, fortino difeso con le unghie e con i denti dagli assalti dei rivali, finanche a costo della vita, così come comprova l’assassinio di Annunziata D’Amico. Subentrata alla guida del clan di famiglia, in seguito all’arresto dei fratelli Antonio e Giuseppe, “la passillona” – questo il soprannome della D’Amico – mise all’angolo perfino suo marito, pur di vestire gli impegnativi abiti della donna-boss. Tra le prime interpreti della camorra in gonnella, affiancata dalle sorelle e dalle cognate, riuscì ad impostare 14 piazze di droga nel suo fortino, il Conocal. Proprio il diniego di corrispondere una tangente ai De Micco sul business della droga da lei gestito nel Conocal, quel rione che viveva e percepiva come “suo” e che non era disposta a condividere con nessuno, sancì la condanna a morte della “passillona”.
“O’ Bodo in casa mia non mette nessuna legge”: sbraita Annunziata D’Amico, ignara di essere intercettata, durante un colloquio con un affiliato, nell’ambito del quale commenta con vivo disappunto le imposizioni dettate dai De Micco, gli acerrimi rivali con i quali il suo clan è in rotta di collisione per il controllo del territorio.
Annunziata D’Amico viene uccisa a 40 anni, in un agguato di chiaro stampo camorristico, sui quali c’è la firma dei De Micco. Ha preferito farsi ammazzare, pur di non piegarsi alle imposizioni dei “Bodo”, lasciando 5 figli, tutti maschi, orfani di madre. Quel sabato mattina, il 10 ottobre del 2015, Annunziata D’Amico fu tradita proprio dal “cuore di mamma”.
Sapeva di essere finita nel mirino dei killer del clan rivale e per questo era restia ad uscire di casa, nei giorni precedenti erano state registrate diverse incursioni armate dei “Bodo” nel suo fortino e uno dei suoi figli era stato avvicinato da un affiliato al clan De Micco che gli rivolse delle frasi inquietanti. Quella mattina, però, decise di lasciare il suo appartamento in via al Chiaro di luna per recarsi a colloquio dal suo primogenito, detenuto presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Un desiderio rivelatosi fatale: “la passillona” fu raggiunta dai sicari che fecero irruzione nel Conocal a bordo di un’auto dalla quale scese il killer incappucciato: “Antonio De Martino detto “XX”.
Annunziata D’Amico, donna-boss dell’omonimo clan, uccisa come un boss, ha servito e rispettato il codice d’onore della camorra fino all’ultimo respiro: quando si è trovata a tu per tu con la morte, mentre cercava riparo tra le auto in sosta, gli urlava di scoprire il volto per permetterle di conoscere l’identità del suo assassino.
Una morte violenta che ha scosso notevolmente la famiglia D’Amico, dentro e fuori dal carcere. Appresa la notizia, il figlio e i fratelli della passillona furono ricoverati in infermeria, in preda e veri e propri momenti d’indomabile isteria. Proprio tra le mura del carcere sarebbe stato stabilito che a vendicare la morte della prima donna-boss della storia della camorra ponticellese assassinata in un agguato doveva essere un uomo nelle cui vene scorre il sangue dei D’Amico.
Una vendetta mai nascosta, anzi rilanciata a suon di video espliciti sui social dall’ultima generazione dei D’Amico, principalmente costituita dai figli della “passillona”: 5 ragazzi costretti a crescere senza madre, l’ultimo dei quali, quando la donna fu assassinata, era nato da pochi mesi. Quattro minorenni, un maggiorenne detenuto: questo il parterre chiamato a raccogliere la pesante eredità di una famiglia distrutta da un efferato delitto di camorra e che attualmente vede gli zii e le zie materne detenuti, al pari del padre, Salvatore Ercolani detto Chernobyl.
Seppure, a marzo del 2015, pochi mesi prima dell’omicidio di Annunziata D’Amico, un blitz fece scattare le manette per 52 soggetti contigui al clan egemone nel Conocal, il business della droga continuò a rifocillare le casse del clan, grazie alle 14 piazze di droga presenti nel rione. Un’attività illecita capeggiata dalla “passillona” che ignara di essere intercettata, negoziava trattative con i narcotrafficanti più rinomati della scena partenopea ed istruiva le giovani leve circa le pistole da utilizzare in base alle esigenze da soddisfare. “Stese”, “bussate di porta” – messaggi minatori comunicati verbalmente mostrando un’arma – e molte altre situazioni necessarie per rivendicare la supremazia del clan e consolidare la presenza sul territorio.
Pochi mesi dopo l’assassinio di Annunziata D’Amico, a giugno del 2016, un maxi-blitz fece scattare le manette per 94 persone contigue al clan D’Amico, contribuendo letteralmente a ripulire e liberare il Conocal, almeno sulla carta.
Nella realtà dei fatti, quello che è accaduto all’indomani di quell’importantissima operazione, ben lascia intravedere la condanna che la criminalità infligge ai predestinati che vivono in ostaggio delle dinamiche camorristiche nei rioni come il Conocal: giovani, giovanissimi, ragazzini, bambini costretti a spacciare e a delinquere, pur di preservare gli interessi della cosca.
Nel frattempo, i giovani eredi del clan D’Amico sono cresciuti bramando vendetta e tessendo rapporti ed alleanze strategiche, seppure costretti a subire angherie e vessazioni da parte dei clan egemoni. Come accade nel 2018, quando i De Micco che furono costretti a cedere il passo ai clan alleati di Napoli est, un cartello camorristico costituito dalle vecchie famiglie d’onore dell’area orientale di Napoli: i De Luca Bossa, i Minichini, gli Schisa, gli Aprea, i Rinaldi. Proprio per ringraziare gli Aprea dell’appoggio fornito, i De Luca Bossa “gli regalarono” il Conocal. L’insediamento dei “barresi”, un clan per giunta relegato fuori dai confini di Ponticelli, scatenò l’ira dei giovani reduci del clan D’Amico che manifestarono il loro disappunto a suon di “stese”.
Seppure fortemente intenzionati e motivati a centrare l’ossessivo obiettivo della rivalsa e della vendetta, la nuova generazione del clan D’Amico trascorre le giornate ad affilare denti ed armi, annunciando le loro intenzioni sui social, a suon di video dai contenuti espliciti e mostrando i muscoli ai residenti in zona che vivono letteralmente in balia delle leggi imposte dagli esponenti della malavita locale.
La bandiera nera che sventola accanto alla fragola, nell’immagine-spot che pubblicizza il brand del clan D’Amico, dirama un messaggio ben preciso: l’intenzione dei D’Amico di tornare a marcare la scena camorristica ponticellese con l’auspicio di veder sventolare la bandiera del clan di famiglia sul quartiere per annunciare che “giustizia è fatta: la passillona è stata vendicata e i fraulella sono al comando”.