“Noi siamo una firma come Versace, esistiamo da tanti anni sul mercato”: questo l’audio che accompagna uno degli ultimi video pubblicati su TikTok da Vincenzo Casella, l’ultimo superstite dell’omonimo clan rimasto a piede libero fino allo scorso 28 novembre.
Un audio che accompagna tre foto che si alternano in sequenza, probabilmente in modo tutt’altro che casuale: Gennaro Aprea detto ‘o nonno, reggente dell’omonimo clan e figura apicale del cartello camorristico costituito dai vecchi clan di Napoli est di cui i Casella erano parte integrante, seguito da Vincenzo Casella, per l’appunto, l’unico dei tre figli del defunto boss Salvatore Casella rimasto ancora a piede libero e infine Giuseppe Righetto, figlio illegittimo di quest’ultimo e pertanto fratellastro dei Casella, stimato essere la figura più autorevole del clan. Pertanto, il video pubblicato da Vincenzo Casella, il figlio più piccolo di Salvatore Casella detto Paglialone, mirerebbe a diramare un messaggio ben definito: il marchio di famiglia (il clan Casella) è destinato a non passare mai di moda, grazie all’alleanza con i barresi, sotto la guida di Casella junior, subentrato a Righetto nella reggenza del clan.
Un piano disfatto dal blitz che lo scorso 28 novembre ha fatto scattare le manette anche per l’ultimo superstite del clan Casella rimasto a piede libero, oltre che per le altre figure apicali del cartello camorristico costituito dai Minichini-De Luca Bossa-Schisa-Casella-Aprea-Rinaldi, concorrendo altresì ad aggravare la posizione degli affiliati già detenuti, tra i quali i fratelli Eduardo e Giuseppe Casella.
Classe 1996, Vincenzo Casella viene descritto dal collaboratore Tommaso Schisa come un affiliato al clan principalmente dedito al business della droga che gestiva per conto della famiglia/clan ed è inoltre indicato tra gli esponenti del clan Casella che erano soliti percepire una quota mensile di 1.500 euro al mese dalla cassa comune in cui confluivano anche i proventi illeciti derivanti dall’attività di spaccio da loro gestita in via Franciosa, quartier generale dell’organizzazione.
Dalle dichiarazioni rese da vari collaboratori di giustizia emerge la partecipazione attiva di Vincenzo Casella alle riunioni tra i vertici della cosca e non solo. Figura tra gli affiliati più attivi nel pianificare la controffensiva, fin dagli istanti successivi all’agguato subìto in strada dal cognato Nicola Aulisio detto Alì, nel periodo in cui era in corso una faida che li vedeva coinvolti in prima linea contro i De Martino.
A ricostruire il suo profilo criminale è lo stesso Vincenzo Casella, ignaro di essere intercettato, nel corso di un dialogo con il cugino Nicola Aulisio, figlio di Luigi: i due si confrontano circa l’atteggiamento irriverente palesato da un soggetto che orbitava nel contesto malavitoso. Senza indugi, Vincenzo Casella ne ordina la morte, facendo poi chiaro riferimento alla disponibilità di armi, indicando al cugino una pistola da recuperare per compiere, verosimilmente, l’omicidio.
L’effettiva disponibilità di armi della quale il clan Casella poteva beneficiare è pienamente riscontrata dall’esito di svariate perquisizioni da parte delle forze dell’ordine che hanno inoltre concorso ad accertare che il clan custodiva diverse auto rubate, oltre a sostanze stupefacenti che confermano la presenza di una piazza di spaccio radicata in via Franciosa, nella zona denominata in gergo “aret’ a Barr”, quartier generale dei Casella.