Morto all’età di 50 anni Raffaele Romano, soprannominato “Lellè”, affiliato al clan De Luca Bossa, nonchè cognato di Francesco Audino detto il cinese, figura apicale del cartello camorristico costituito dai vecchi clan dell’area orientale di Napoli.
Romano è stato trovato senza vita all’interno della cella in cui era detenuto nel carcere di Agrigento, dove era giunto pochi giorni fa, trasferito dal carcere di Secondigliano.
Al momento non sono ancora chiare le cause del decesso, le indagini del caso concorreranno a far luce sulla vicenda.
La notizia del decesso di Lellè ha destato non poco scalpore negli ambienti camorristici ponticellesi, non solo per le circostanze, ancora tutte da chiarire, in cui è maturato. Alla sua storia criminale è legato un aneddoto clamoroso: dopo un trascorso da collaboratore di giustizia, Romano tornò sui suoi passi, pur senza ritrattare le dichiarazioni rese alla magistratura. Successivamente fu un altro pentito, Tommaso Schisa, a motivare agli inquirenti quel gesto anomalo: Michele Minichini convinse Romano a tornare sui suoi passi, promettendogli un vitalizio di duemila euro al mese.
Tuttavia, le dichiarazioni di Raffaele Romano figurano tra quelle degli undici collaboratori di giustizia che hanno concorso a sgominare il cartello costituito dai vecchi clan di Napoli est e che hanno portato all’arresto di più di 60 persone lo scorso 28 noembre.
Dagli stralci dei verbali a firma di Romano trapela che il boss Ciro Rinaldi detto Mauè avrebbe consegnato a Michele Minichini il controllo della zona di Piazza Mercato e “sopra le mura” (Porta Nolana, ndr) in seguito ad un delitto eccellente da lui eseguito su sua commissione e che i proventi degli affari illeciti di quelle zone erano destinati al gruppo di Minichini, pertanto non confluivano nella cassa comune dell’organizzazione. Un regalo a tutti gli effetti, per dirla in gergo camorristico, che rappresenterebbe l’atto di gratitudine di Rinaldi indirizzato a Minichini, all’indomani di un delitto eccellente eseguito da quest’ultimo e che verosimilmente può aver concorso a consentire l’ascesa del cartello camorristico del boss Ciro Rinaldi.
“Ad operare lì (nella zona del Mercato e di sopra le mura, ndr) sono Gabriella Onesto e Numero Uno (un soggetto affiliato al clan non identificato, ndr) – ha dichiarato Romano – e se ci sono problemi Michele Minichini manda suo fratello Alfredo, il caino e Fabio ‘o chiatto e qualche altro ragazzo per fare delle azioni e sistemare le cose”.
Cd contraffatti, sigarette, vendita di capi e i business gestiti dagli extracomunitari: queste le attività illecite praticate in quella zona dalle quali il clan percepiva una tangente.
“Numero Uno girava per raccogliere i soldi e li dava a Gabriella Onesto, che poi li dava a Michele Minichini che li divideva tra loro”, ha spiegato ancora Romano alla magistratura.
Seppure Romano si si lasciato convincere da Michele Minichini, mostrandosi disposto ad abbandonare la via del pentimento sotto compenso economico, il fatto che le sue dichiarazioni abbiano concorso a rafforzare il quadro accusatorio che aggrava la posizione penale delle figure apicali del cartello camorristico di cui è stato parte attiva – in primis, quella di suo cognato Francesco Audino da lui stesso indicato a capo dell’alleanza – potrebbe rappresentare il punto di non ritorno dal quale potrebbe essere scaturita la sua condanna a morte.
Determinante, in tal senso, l’esito dell’autopsia che accerterà se Romano sia morto per cause naturali o meno, ma nel frattempo ciò che desta particolare allarmismo è il vox populi che ha perennemente accompagnato la trafila camorristica di Lellè, soprattutto nell’era del post-pentimento. In seguito al suo dietrofront, infatti, negli ambienti in odore di camorra si è sempre temuto che giungesse una “punizione” per compiere un’azione dimostrativa che in questo momento più che mai potrebbe fungere da fattore deterrente per altri affiliati che si stanno lasciando accarezzare dall’idea di passare dalla parte dello Stato.
Il fatto che Romano si sia mostrato disposto ad abbandonare la via del pentimento sotto la promessa di un “vitalizio”, non era visto di buon occhio dagli “uomini d’onore”. In primis perchè rendeva inaffidabile quell’affiliato che, in qualsiasi momento, vedendosi negare il denaro che gli era stato garantito, poteva nuovamente cambiare posizione e tornare a collaborare. Un timore fomentato dall’apparizione delle dichiarazioni rilasciate da Romano tra quelle dei collaboratori che hanno contribuito a decapitare il cartello camorristico costituito dai Minichini-De Luca Bossa-Schia-Casella- Aprea-Rinaldi.
All’indomani del blitz dello scorso 28 novembre, tra i relitti dei clan che figurano nell’alleanza regna forte la paura di un “effetto domino” che possa scaturire non appena venga ufficializzato il pentimento di uno degli oltre 60 soggetti tratti in arresto. In questo concitato scenario è maturata la morte di Raffaele Romano.
Uno scenario che fin da subito ha concorso a gettare un fitto ed inquietante velo di mistero sulla morte del cognato di ‘o cinese, soprattutto perchè avvenuta contestualmente al suo trasferimento dal carcere di Secondigliano ad Agrigento.