L’alleanza tra i vecchi clan di Napoli est e i Sibillo di Forcella, all’indomani dell’omicidio di Emanuele Sibillo, giovane boss e fondatore dell’omonimo clan, ucciso all’età di 19 anni, ha concorso ad enfatizzarne il mito anche tra gli aspiranti camorristi di Ponticelli.
Un dettaglio che emerge nitidamente dai dialoghi tra i giovani interpreti della malavita locale:
“Stavo tutto a Sibillo”, “Come è bello fare la guerra a tutti”, “Voglio fare la guerra a tutti”, “Voglio prendermi il mio parco”.
Parlava così Ciro Postiglione, amico e sodale fidato di Alessio Bossis, il 22enne ucciso in un agguato lo scorso ottobre e che malgrado la giovane età era riuscito a ritagliarsi un ruolo di primo ordine nell’organizzazione egemone a Napoli est tra il 2018 e il 2020.
I Sibillo convergono nel sodalizio costituito dai Minichini-Schisa-De Luca Bossa- Casella-Aprea-Rinaldi anche e soprattutto per vendicare la morte di ES17: questo il marchio identificativo del giovane assassinato durante la latitanza mentre era intento a compiere una “stesa” in via Oronzio Costa, fortino dei rivali del clan Buonerba, la sera del 2 luglio 2015. Si spense così il sogno covato dal baby-boss a capo della cosiddetta “paranza dei bambini di Forcella” di scalzare i Mazzarella dal quartiere per imporre la sua egemonia. Nonostante l’età acerba, il giovane Sibillo riuscì a rivendicare rispetto, incutendo timore ai vecchi uomini d’onore a capo dei clan più datati della zona, ma questo non è l’unico dettaglio che ha concorso ad incrementare suggestioni e fascinazioni legate al suo personaggio. Malgrado la morte prematura e violenta che ha condannato due bambini a crescere senza padre, Emanuele Sibillo seguita ad essere percepito come un mito, un eroe da emulare per onorarne il sacrificio terreno.
Un’ascesa rapida e fugace, quella di Sibillo. Arrestato all’età di 15 anni a gennaio del 2011, perchè trovato in possesso di due pistole, entra in una comunità di recupero ed è proprio in quella sede che inizia a covare il piano di costituire una paranza tutta sua, una volta tornato in libertà, mentre per ingannare il tempo si avventura nel mondo del giornalismo. Gli operatori non potevano intuire le reali intenzioni di quel giovane che si cimentava nelle interviste e nella scrittura di articoli in cui parlava anche della malavita.
“La camorra è un sistema abbastanza complesso dove comanda esclusivamente la legge del più forte che fa da padrone. I camorristi sono devi veri imprenditori, sono anche molto bravi a nascondere la ‘propria identità’. Ormai l’illegalità è da anni radicata, abbatterla appare impossibile e bisogna essere molto bravi ad allontanarsi da certi contesti criminali”: è così che lo stesso Emanuele descriveva la camorra, in un articolo scritto nel 2012, sul numero di novembre del giornale della comunità.
Dopo un’evasione e un nuovo arresto, esce definitivamente dal carcere minorile a Natale del 2012. Tornato in libertà, Emanuele Sibillo inizia immediatamente a concretizzare il piano bramato durante la detenzione e che mira a cacciare da Forcella i Mazzarella per appropriarsi del controllo dello spaccio di stupefacenti e delle estorsioni: è così che nella primavera del 2013 tra le strade del centro storico di Napoli si combatte una feroce faida di camorra, nell’ambito della quale il padre di Emanuele Sibillo viene gambizzato. Il clan capeggiato da quest’ultimo intende replicare all’affronto cercando di uccidere un elemento di spicco del clan rivale. Il baby-boss Emanuele Sibillo, appena maggiorenne, non si lascia intimorire dalla presenza di uno dei clan più datati della scena camorristica partenopea. E’ così che il clan Sibillo, sotto la guida del baby-boss Emanuele, riesce progressivamente ad estendersi, costringendo alcuni esponenti del clan Mazzarella a lasciare il quartiere. Un’egemonia rivendicata a suon di “stese” e sparatorie che concorrono a minare seriamente la serenità tra le strade del centro storico partenopeo. Giovanissimi che sparano tra la gente, sprezzanti dei turisti e dei tanti cittadini che affollano le strade della città.
In questo clima di dilagante violenza matura l’assassinio di Emanuele Sibillo. Pochi mesi prima era riuscito a sfuggire al blitz che lo avrebbe nuovamente tradotto in carcere e da quel momento era iniziata la sua latitanza. Una prova durissima che lo costringeva a stare lontano dalla famiglia e gli imponeva di vivere ugualmente da recluso, optando per un profilo basso e prudente. A dargli la caccia, ormai, non erano solo i rivali, ma anche le forze dell’ordine. “ES17”, però, aveva una missione da portare a compimento: il suo sogno era vedere sventolare quel simbolo su Forcella e per riuscirci doveva mettere all’angolo i Mazzarella. Non gli bastava impartire direttive ai suoi soldati, Emanuele Sibillo sentiva l’impellente bisogno di metterci la faccia e di compiere in prima persona le azioni minatorie indirizzate ai rivali. Per questa ragione, la sera del 2 luglio del 2015, lasciò il bunker nel quale era nascosto per compiere una stesa nel fortino dei Buonerba, alleati dei Mazzarella, ma mentre sparava lungo via Oronzio Costa, i rivali risposero al fuoco e il baby-boss fu raggiunto da un proiettile alla schiena, rivelatosi poi letale. Inutili il tempestivo intervento dei suoi fedelissimi amici e sodali che lo scaricarono letteralmente nel pronto soccorso dell’Ospedale Loreto Mare di Napoli. Una sequenza agghiacciante, immortalata dai sistemi di videosorveglianza del nosocomio.
Termina così la storia terrena di Emanuele Sibillo, un boss ucciso all’età di 19 anni per aver inseguito il sogno di conquistare Forcella. Un epilogo tutt’altro che lieto, ma ciononostante il mito di Emanuele Sibillo seguita a macinare proseliti e consensi, enfatizzati da una crescente esaltazione delle gesta camorristiche che nell’arco di pochi anni lo hanno traghettato verso la morte violenta. Pur consapevoli del destino al quale andranno incontro emulando le gesta di Emanuele Sibillo, i giovani aspiranti baby-boss della camorra di casa nostra seguitano ad alimentare quella che ormai è diventata un’icona del male.
Emanuele Sibillo è stato il primo giovane boss ad introdurre un vero e proprio brand che tuttora ispira altri aspiranti camorristi dissipati nei vari rioni e quartieri della città di Napoli. Un modello frutto dell’intreccio di diverse ideologie, estrapolate da varie culture: la barba folta come i guerriglieri dell’Isis, i tatuaggi che diventano simbolo e marchio indelebile di fedeltà ed affiliazione, strizzando l’occhio alle gang sudamericane. L’unione di lettere e numeri scelti e affrancati in maniera tutt’altro che casuale diventano il logo emblematico dell’affiliazione e dopo la morte di “ES17” il suo simbolo identificativo continuerà a scalfire la pelle dei suoi tantissimi estimatori. Non solo tradizione, ma anche modernizzazione di immagini e contenuti risalenti al vecchio codice d’onore della camorra. Il “brand ES17” riporta in voga lo stereotipo del boss centauro, rispolverando il cliché che spopolava tra i vicoli della Napoli degli anni ’80, quando il controllo del territorio veniva marcato a suon di plateali processioni di motociclette possenti e rumorose, capeggiate dal capoclan di turno.
Emblematica, in tal senso, la foto che ritrae Emanuele Sibillo a bordo di una motocicletta di grossa cilindrata. Un’immagine iconica, così come confermano i fatti avvenuti a Ponticelli negli anni successivi alla morte del baby-boss di Forcella.
In tale ottica, la storia camorristica di Alessio Bossis evidenzia numerose analogie con quella di Emanuele Sibillo, epilogo compreso.
Alessio Bossis, affiancato dal suo inseparabile amico Ciro Postiglione, inizia a marcare la scena camorristica ponticellese compiendo azione assai analoghe a quelle che hanno segnato l’incipit dell’ascesa di Sibillo esibendosi in svariate “stese”, a bordo di motorini, con il chiaro intento di palesare la la sua importanza criminale. Riesce così, malgrado la giovane età, a conquistare un ruolo di coordinamento nel cartello costituito dai vecchi clan di Napoli est, tant’è vero che s’indispettisce quando vengono attuati raid a sua insaputa, come esplosioni di bombe. La consacrazione della figura di Alessio Bossis avviene nel 2019, contestualmente all’arresto di Alfredo Minichini e viene sancita da un episodio ben preciso: nelle ore successive al blitz che aveva tradotto in carcere la figura che fungeva da trait d’union tra i vertici della cosca e Bossis, quest’ultimo, accompagnato da Ciro Postiglione, sfila tra le strade di Ponticelli a bordo della Honda Transalp di Minichini per annunciare il passaggio del testimone. Una scorreria per le strade del quartiere a bordo di una moto di grossa cilindrata ingaggiando un inseguimento con una volante della Polizia di Stato, nell’ambito della quale i due centauri riuscirono ad avere la meglio.
“Stavo tutto a Sibillo”: questa la frase usata da Ciro Postiglione per narrare quella performance camorristica ad un amico.
Così come fu per Emanuele Sibillo, la foto che ritrae Alessio Bossis a bordo di una moto di grossa cilindrata è diventata un’immagine cult, emblematica dello status di leader del giovane, oltre che del controllo esercitato sul territorio. Ancor più dopo la sua morte.
Perchè una moto potente diventa il mezzo di locomozione simbolo del potere criminale è facilmente intuibile: i giovani aspiranti leader della camorra voglio essere riconosciuti. Sprezzanti delle conseguenze delle loro azioni, non indossano mai il casco, perchè tutti devono essere in grado di identificarli facilmente. Inoltre, la destrezza con la quale riescono a dileguarsi in caso di pericolo gli assicura una fuga più rapida ed agile rispetto ad un’automobile.
Anche Alessio Bossis, come Emanuele Sibillo, poteva sottrarsi alla morte violenta, se si fosse lasciato arrestare. Scarcerato a maggio del 2022, in attesa che il tribunale si pronunciasse circa l’utilizzabilità delle intercettazioni che lo indicavano tra gli autori di una “stesa” in Piazza Trieste e Trento a Napoli, non poteva allontanarsi da Volla, suo comune di residenza, per non violare la misura di sorveglianza speciale alla quale era sottoposto e invece, ad agosto, fu sorpreso nel Rione De Gasperi di Ponticelli, a bordo della sua moto. Inutile il tentativo di sfuggire ai poliziotti che lo avevano intercettato, Bossis fu nuovamente arrestato e tradotto in carcere, ma la sua detenzione durò solo poche ore. L’avvocato dichiarò che il suo assistito era diretto al vicino ospedale del Mare di Ponticelli per sottoporsi ad una visita medica. Tanto bastò per consentire alla porte del carcere di riaprirsi nuovamente. Una libertà durata appena due mesi: Alessio Bossis fu ucciso in un agguato di chiara matrice camorristica, nel tardo pomeriggio del 24 ottobre, mentre si trovava nel parcheggio di un’area di ristoro a Volla, in compagnia di due suoi fedelissimi, tra i quali P.P., il minorenne accusato di essere uno dei quattro autori del raid in viale Margherita e poi rilasciato per insufficienza di prove. E’ diventato maggiorenne poco dopo aver assistito agli ultimi istanti di vita del suo amico e “capo” che gli avrebbe consegnato le sue ultime volontà: non dimenticarlo e vendicare la sua morte.
Un messaggio che il giovane avrebbe rilanciato anche sui social in un video tributo, poi cancellato poco dopo. Non a caso, probabilmente, tra le foto che più frequentemente si susseguono nei frame dedicati a Bossis, primeggia l’immagine dell’amico designato come suo erede a bordo di una moto potente, accompagnato da frasi eloquenti: “o chiù fort e Napl, nessuno potrà mai cancellare ciò che sei stato e che sarai per sempre”. “Sei il mio sangue. Io e te una cosa sola per sempre”.
Malgrado la giovane età, gode della fama del temerario, il ragazzo che ha sventato il carcere riuscendo a scagionarsi dalle accuse che lo indicavano tra i quattro autori del raid che seminò il panico in viale Margherita a Ponticelli lo scorso 2 luglio. In quella circostanza, un commando composto da quattro persone, a bordo di due moto, a volto scoperto, sparò una raffica di colpi ad altezza d’uomo nei pressi di un bar con l’intento di uccidere un affiliato al clan rivale.
Un’azione camorristica in perfetto “stile Sibillo”.