Il ruolo più influente ed autorevole, all’interno del cartello camorristico in cui sono confluite le vecchie famiglie d’onore dell’area orientale di Napoli, era ricoperto da tre figure di primo ordine: “cinese”, “zio Tonino” e “brodolino” alias Francesco Audino, Antonio Acanfora e Ciro Imperatrice.
La meticolosa attività investigativa, avviata nel 2016 e culminata nel blitz che lo scorso 28 novembre ha fatto scattare le manette per più di 60 soggetti ritenuti, a vario titolo, affiliati al suddetto cartello camorristico, ha consentito di ricostruire l’intera struttura gerarchica, attribuendo a ciascun sodale il ruolo ricoperto all’interno dell’organizzazione.
Cruciali le dichiarazioni rese da ben 11 collaboratori di giustizia, ex affiliati a diversi clan attivi nei quartieri Ponticelli, Barra e San Giovanni, i quali all’unanimità hanno indicato Audino, Acanfora ed Aprea come i soggetti che costituivano il mostro a tre teste ubicato al vertice della piramide camorristica costituita dai cartelli confederati. Una ricostruzione dalla quale emerge il ruolo egemone ricoperto dai “barresi” all’interno dell’organizzazione che sono così riusciti a coronare un sogno covato da decenni, ovvero, conquistare Ponticelli ed estendere la propria egemonia ben oltre i confini del quartiere Barra. Una velleità bramata fin dall’era dei Sarno e che, seppure per un arco temporale relativamente breve, ha trovato effettivo riscontro nella realtà.
Tra le deposizioni rese dagli 11 collaboratori di giustizia, figurano anche quelle di Raffaele Romano, contiguo al clan Minichini-De Luca Bossa e cognato di Francesco Audino. Romano dopo aver manifestato la volontà di collaborare con la giustizia e aver messo a verbale le sue deposizioni, si è tirato indietro, senza mai ritrattare le dichiarazioni rese. Sarà Tommaso Schisa a far luce sulla vicenda, spiegando alla magistratura che Romano fu convinto da Minichini a non collaborare con la promessa di vedersi corrispondere un vitalizio pari a circa 2mila euro mensili.
La prima dimostrazione eclatante dell’unione d’intenti perseguita dalle famiglie che rappresentano i clan più datati dell’area orientale di Napoli, risale al 6 dicembre del 2017, quando gli agenti della Squadra Mobile di Napoli fecero irruzione in un appartamento di Barra interrompendo il summit in corso tra i capi delle organizzazioni confederate: Gennaro Aprea, Giuseppe De Luca Bossa, Francesco Audino, Antonio Boccia, Michele ed Alfredo Minichini. Ignari di essere intercettati, nelle conversazioni che tennero banco nelle ore successive alla riunione interrotta dai poliziotti, gli stessi membri dell’alleanza spiegarono che erano stati interrotti mentre erano in corso le trattative per la spartizione del territorio. Nel vedere irrompere le forze dell’ordine, inoltre, i presenti ipotizzarono che fosse in corso un’incursione armata dei clan rivali, complice “la spiata” di qualche recluta infedele.
Verosimilmente, quella fu una delle prime riunioni tra i reggenti dei vari clan alleati. Giuseppe De Luca Bossa, i fratelli Eduardo Casella e Giuseppe Righetto, i fratelli Michele ed Alfredo Minichini, Audino, Acanfora, Imperatrice, Luisa De Stefano, così come riferito dai collaboratori di giustizia, erano soliti incontrarsi periodicamente.
Così come appare chiaro l’intento di costituire un unico cartello camorristico composto dai clan che avevano subito pesantemente il tracollo scaturito dal valzer di pentimenti e che erano stati costretti a subire l’impeto di altre organizzazioni criminali più forti ed autorevoli: “chiamo tutte le famiglie che hanno subito da questa gente”, una frase che annuncia la volontà di amalgamare la brama di rivalsa delle vecchie famiglie d’onore, reduci da anni di angherie e vessazioni, con l’intento di garantire riscatto e ricchezza. Un sodalizio nel quale a fungere da collante è soprattutto il desiderio di vendetta contro i collaboratori di giustizia che con le loro dichiarazioni hanno concorso a rimaneggiare le loro compagini.
“E’ uscito il cinese dopo tanti anni”, “Peppino ci mancava da una vita”: viene commentato così il ritorno sulla scena camorristica di Francesco Audino detto il cinese e Giuseppe De Luca Bossa detto Peppino ‘o sicco.
La famiglia Aprea, storico clan insediato a Barra, in seguito agli arresti dei maggiori esponenti della cosca, era retto da Gennaro Aprea detto ‘o nonno ed ha iniziato a risalire la china nel giugno del 2017, quando venne scarcerato Antonio Acanfora, persona indicata dal collaboratore Rosario Rolletta come il braccio destro di Francesco Audino, insieme al quale venne arrestato per estorsione, insieme ad altre figure di spicco del clan Cuccaro-Aprea. Scarcerazione alla qual fa seguito quella di Ciro Imperatrice, altro pezzo da 90 della malavita barrese, legato ai Cuccaro-Aprea.
Antonio Acanfora, soprannominato zio Tonino, perno portante del clan Cuccaro-Aprea di Barra, viene indicato dal pentito Tommaso Schisa, figlio della pazzignana Luisa De Stefano e dell’ex affiliato al clan Sarno Roberto Schisa, tra le figure apicali del clan costrette a restare in sordina, limitando i contatti con gli altri affiliati per scongiurare l’arresto e garantire continuità al cartello camorristico. Una necessità che divenne ancor più impellente al cospetto del forte sentore che le porte del carcere si stessero per aprire per “il cinese”.
“Sul territorio di Barra noi Schisa non ci siamo mai andati. – dichiara Schisa – A Barra comandano il cinese, brodolino e Acanfora. Non ho mai conosciuto personalmente gli ultimi due, ma so che Acanfora è un signore anziano.” In effetti, Acanfora, in virtù dei suoi 61 anni è la figura più anziana indicata tra i vertici dell’organizzazione, a fronte dei 48 anni di Imperatrice e dei 42 del “cinese”.
I barresi “stanno una cosa con noi”. A Barra, infatti, versiamo una quota mensile dei proventi delle attività illecite dell’organizzazione dell’importo di 20-25mila euro per le spese dei detenuti”, precisa ancora Tommaso Schisa.
“Le piazze di spaccio ogni settimana pagavano una somma di denaro che veniva consegnata al cinese, come anche le estorsioni, però, per esempio, nella zona dove comandavo io, cioè il Rione De Gasperi, le piazze di spaccio le rifornivo io e quindi “i punti in più” che mettevo sull’acquisto della droga me li prendevo io e la mia famiglia. Per far capire la caratura del cinese vi dico che, nonostante oggi sia libero Peppe ‘o sicco fratello di Antonio De Luca Bossa e quindi anche per il cognome dovrebbe comandare, viceversa è sempre il cinese che tiene voce in capitolo.” A sottolineare il ruolo egemone ricoperto dal “cinese” concorre anche un dettaglio tutt’altro che trascurabile: Audino abita nell’alloggio popolare in cui viveva Marco De Micco, boss reggente dell’omonimo clan, andato incontro ad una rapida ascesa camorristica, tant’è vero che fu in grado di imporre la sua egemonia a Ponticelli, in seguito al declino dei Sarno. I Minichini-De Luca Bossa entrarono in rotta di collisione con i De Micco nel 2013, quando misero la firma sull’assassinio di Antonio Minichini, fratellastro di Michele ed Alfredo, oltre che figlio di Anna De Luca Bossa. Dal loro canto anche “le pazzignane” capeggiate da Luisa De Stefano, madre del neopentito Schisa, nutrivano vivo rancore nei confronti dei De Micco, stanche di dover versare nelle loro casse parte dei proventi delle piazze di droga da loro gestite. L’odio contro i De Micco è infatti uno dei sentimenti che funge da collante tra i clan alleati, tant’è vero che il summit interrotto dalle forze dell’ordine era stato organizzato pochi giorni dopo il blitz che aveva tradotto in carcere 23 figure di spicco del clan De Micco, concorrendo a favorirne l’uscita di scena. Un evento propizio del quale i clan alleati approfittarono per riappropriarsi di Ponticelli centrando uno degli obiettivi che ispirò la nascita dell’alleanza: azzerare la presenza dei De Micco nel quartiere. Motivo per il quale, l’ubicazione del “cinese” nell’appartamento che un tempo fu del boss Marco De Micco, assume una fortissima carica simbolica.
In riferimento al ruolo ricoperto da Acanfora ed Imperatrice, Tommaso Schisa chiarisce quanto segue: “Preciso che ci sono due soggetti di vertice che io non ho ancora incontrato perchè devono rimanere nascosti per subentrare al cinese che sa che prima o poi verrà arrestato. Si tratta di Acanfora, che chiamano zio Acanfora, e un tale a nome “Brudolino” già affiliato al clan De Luca Bossa.”
Rosario Rolletta, ex affiliato al clan De Martino, precisa che in seguito al preannunciato arresto di Audino, la cassa comune del cartello camorristico veniva gestita da Giuseppe De Luca Bossa, successivamente coadiuvato da Domenico Amitrano e dal nipote Umberto De Luca Bossa. I soldi potevano essere prelevati dalla cassa comune solo per acquistare armi, stupefacenti e per gli stipendi agli affiliati, pagare gli avvocati e mantenere i detenuti. Prima del suo arresto, Audino si occupava anche della distribuzione degli stipendi.
Le intercettazioni, inoltre, chiariscono che era ‘o cinese a decidere quali piazze di spaccio dovevano essere attive a Ponticelli ed era lui a decidere a quali soggetti affidare la gestione di ogni singola piazza.
Ciro Imperatrice, ben più noto negli ambienti malavitosi con il nomignolo di “brodulino” o “brodolino” è una figura storicamente collegata al clan Cuccaro-Aprea di Barra. In seguito all’alleanza sancita da Audino entra a far parte del cartello costituito dai De Luca Bossa-Minichini-Aprea e insieme ad Acanfora ricopre un ruolo di vertice. Residente nello stesso isolato di Francesco Audino, nel plesso di case popolare in via Mastellone a Barra, Imperatrice viene anche denominato “zio Ciruzzo”. L’appellativo di “zio” viene utilizzato dagli affiliati solo per indicare i capi del cartello camorristico. Non a caso, anche Audino ed Acanfora durante i colloqui in carcere vengono rispettivamente chiamati “zio Franco” e “zio Tonino”. Così come durante i colloqui, gli affiliati erano soliti mimare gli occhi a mandorla quando si riferivano al cinese.