“La sua uccisione sembra inserirsi appieno tra i contrasti esistenti tra i gruppi camorristici operanti a Napoli est”: viene introdotto così dagli inquirenti l’omicidio di Alessio Bossis, il 22enne ucciso in un’area parcheggio di Volla lo scorso 24 ottobre, in un agguato di chiara matrice camorristica. Un omicidio che a dire degli inquirenti s’incastona perfettamente nell’ambito delle logiche dettate dalla faida in corso per il controllo del quartiere Ponticelli e al contempo sottolinea la consolidata posizione del giovane Bossis che, a dispetto della sua giovane età, era riuscito a ritagliarsi un ruolo di primo ordine nello scenario camorristico locale. Complici gli arresti delle figure apicali del cartello De Luca Bossa-Minichini e la sua carismatica personalità, Bossis aveva saputo ritagliarsi rapidamente un ruolo egemone all’interno dell’organizzazione.
Figlio di un facoltoso e rinomato imprenditore, dopo essersi lasciato alle spalle una cocente delusione scaturita dal mancato ingaggio che gli avrebbe garantito una rosea carriera calcistica militando in un importante club del Nord Italia, poco più che adolescente Alessio Bossis si avvicina ai Minichini-De Luca Bossa per ragioni dettate dalla cocente delusione incassata, pur non provenendo da una famiglia in grado di garantirgli una solida stabilità economica. E’ così che la vita di Alessio Bossis viene risucchiata in una rapida e feroce sequenza di eventi che si sono avvicendati per circa sei anni, fino a giungere al suo assassinio.
Seppure l’ordinanza che ha fatto scattare le manette per oltre sessanta interpreti della malavita dell’area orientale di Napoli confermi in toto la sua partecipazione alla “stesa” di Piazza Trieste e Trento a Napoli nel 2019, il tribunale di Napoli lo aveva assolto lo scorso 24 novembre. Complice l’inutilizzabilità delle intercettazioni, la prova cardine che inchiodava il giovane Bossis, il tribunale di Napoli si era quindi visto costretto a scagionarlo da ogni accusa, seppure quelle stesse intercettazioni provassero senza alcun dubbio la sua responsabilità di colpa rispetto ai fatti contestati.
Il dato di fatto oggettivo è che lo scorso 24 novembre Bossis si sarebbe visto accordare l’agognata libertà, dicendo addio alle misure restrittive che gli imponevano di restare relegato a Volla, comune al confine con Ponticelli nel quale il 22enne era residente. Una libertà che sarebbe durata all’incirca 72 ore: anche per Bossis, all’alba di lunedì 28 novembre, sarebbero scattate le manette. Sarebbe comunque finito in carcere appena tre giorni dopo, malgrado quell’assoluzione. Seppure l’estate scorsa abbia fortunosamente sventato il pericolo di finire nuovamente dietro le sbarre: sorpreso dai poliziotti del commissariato di Ponticelli nel rione De Gasperi di Ponticelli a bordo della sua possente motocicletta, Bossis tentò la fuga, consapevole di aver violato il divieto di allontanamento dal comune di residenza al quale era sottoposto. Tuttavia, fu scarcerato nell’arco di poche ore, perchè il suo avvocato giustificò quella violazione asserendo che Bossis fosse diretto al vicino ospedale Del Mare.
La convalida del fermo, in quel frangente, avrebbe concorso a salvargli la vita: lo sottolinea quell'”omissis” che spicca, al posto del suo nome, nell’elenco dei soggetti arrestati lo scorso 28 novembre.
Se non fosse sopraggiunto l’agguato in cui Bossis è stato ammazzato, il giovane avrebbe sì riabbracciato la libertà, ma si sarebbe visto nuovamente costretto a fare i conti con la giustizia per una serie di azioni efferate sulle quali aveva messo la firma in un passato che sembra lontano anni luce, ormai e che invece era solo appollaiato dietro l’angolo.
A delineare il profilo dell’aspirante leader della camorra che Alessio Bossis è stato, concorrono soprattutto le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia: Umberto D’Amico, contiguo all’omonimo clan operante a San Giovanni a Teduccio, lo indica tra gli autori di una “stesa” contro un bar; Tommaso Schisa afferma di essere sempre stato contrario alla sua affiliazione, in virtù del vincolo di parentela che lo legava ai De Micco. Alessio Bossis era infatti il cugino della moglie di Salvatore De Micco. Ciononostante, in un batter d’occhio, Bossis diventò il braccio destro di Alfredo Minichini e proprio quest’ultimo, insieme a suo fratello Michele, furono tra i forti promotori della sua ascesa camorristica.
“So che Bossis ha avuto degli agguati sotto casa. – si legge nel verbale in cui sono riportate le dichiarazioni del neopentito eccellente della camorra di Ponticelli, Tommaso Schisa – Lui stesso in carcere mi ha riferito di aver avuto contrasti con qualcuno del clan dei Veneruso“. Bossis e Schisa comunicavano attraverso le finestre delle celle in cui erano detenuti, trovandosi in due sezioni vicine. Schisa riferisce che Bossis gli aveva raccontato di aver replicato a quell’agguato, mettendo la firma a sua volta su azioni analoghe e seppure non gli avesse precisato chi lo avesse accompagnato e supportato, il figlio della “pazzignana” Luisa De Stefano fornisce due nomi precisi: Raffaele Aprea, figlio di ‘o nonno, il boss Gennaro Aprea e Nicola Aulisio, nipote dei Casella e figlio di Luigi Aulisio detto Alì.
“Da Raffaele Aprea ho appreso in carcere che aveva sparato insieme a Bossis a piazza Trieste e Trento – dichiara Tommaso Schisa – Mi aveva detto che in realtà dovevano sparare al cugino della fidanzata di Alessio, ragazza che è stata arrestata con loro.” Schisa riferisce che Aprea aveva scritto una lettera con l’intenzione di inviarla alla magistratura per chiarire la sua posizione, dalla quale emergeva il ruolo determinante ricoperto dalla giovane che quella sera inviava messaggi ad Alessio per comunicargli quando doveva andare a sparare al cugino. Schisa prosegue il suo racconto riferendo che quando Minichini ed Aprea lessero la lettera dalla finestra a Bossis, lui andò in scandescenze riferendo che si trattava di “una cattiveria nei suoi confronti”.
Tommaso Schisa riferisce alla magistratura che Alessio Bossis sarebbe l’autore di un altro raid eclatante avvenuto nel cuore del Rione De Gasperi nell’estate 2018 ed indirizzato all’abitazione della zia, Antonella De Stefano. Una “stesa” che scaturì da un litigio, consumatosi nei pressi della villa comunale di Ponticelli e che vide Alfredo Minichini malmenare il cognato di Tommaso Schisa. Quando il giovane rientrò nella roccaforte del clan delle “pazzignane” e riferì ai parenti l’accaduto, suo cugino Pasquale Damiano scese armato con l’intenzione di vendicarsi di Alfredo Minichini. Gabriella Onesto segnalò tempestivamente il pericolo a quest’ultimo che, di contro, mandò “i suoi ragazzi”, capeggiati da “Bossis” a compiere il raid intimidatorio rivolto alla famiglia acquisita del giovane malmenato poco prima.
Antonio Rivieccio, ex affiliato al clan Sibillo, oggi collaboratore di giustizia, lo indica come persona vicina a Francesco Audino alias “o cinese”, figura apicale dell’organizzazione costituita dai clan alleati di Napoli est, mentre l’ex “Bodo” Rosario Rolletta lo indica tra i responsabili della “stesa” indirizzata alla sua abitazione nel 2018. Antonio Pipolo, l’ultimo collaboratore di giustizia in ordine cronologico, ha invece spiegato che negli anni 2016-2018 Bossis, insieme ad altri soggetti si sarebbe appropriato del Lotto 10, rione sotto la sfera egemone dei De Micco, approfittando del temporaneo indebolimento di questi ultimi scaturito dal blitz che fece scattare le manette per 23 figure di spicco dell’organizzazione. Fu proprio in quel frangente che il giovane Bossis si sarebbe dedicato alla gestione del business dello spaccio e alle estorsioni in quella sede, forte di una consistente disponibilità di armi.
La comparazione tra intercettazioni ambientali e telefoniche e le dichiarazioni rese da diversi collaboratori di giustizia hanno consentito alla magistratura di ricostruire meticolosamente l’incipit della carriera camorristica di Alessio Bossis, fino al violento epilogo. Il 22enne ucciso lo scorso 24 ottobre debutta sulla scena malavitosa nel 2018, complice l’avvicinamento alla famiglia Minichini, in particolare ad Alfredo, fratello minore di Michele e figlio del boss Ciro Minichini, nonchè figliastro di Anna De Luca Bossa, sorella del sanguinario Tonino ‘o sicco. I vincoli di parentela ben sintetizzano la solida compenetrazione dei fratelli Alfredo e Michele Minichini all’interno delle dinamiche camorristiche dell’area est di Napoli.
Un’ascesa rapida, quella di Bossis, segnata da azioni tanto eclatanti quanto violente. Non solo “stese”, ma anche “scese”, scorribande a bordo di moto roboanti con tanto di pistola in bella mostra, volute per marcare il territorio e sfoggiare un elevato spessore criminale, fino ad assumere un ruolo di coordinamento nel gruppo di appartenenza, così come trapela dalla stizza esternata allorquando venivano compiuti raid a sua insaputa, come ad esempio esplosioni di ordigni. Contestualmente all’arresto di Alfredo Minichini, matura la consacrazione della figura camorristica di Bossis che inizia a tessere rapporti diretti con le figure al vertice del clan, uno su tutti “il cinese”, Francesco Audino. Lo comprovano le conversazioni telefoniche che Bossis ha intrattenuto lo stesso giorno in cui Alfredo Minichini venne arrestato. Una notizia che la moglie di quest’ultimo comunica personalmente al giovane aspirante leader dell’organizzazione. Inoltre, quella stessa sera, quando Bossis intuì che erano in corso degli arresti, si allontanò dalla sua abitazione, temendo che potessero scattare le manette anche per lui. Scongiurato il pericolo di finire dietro le sbarre ed appurato che l’organizzazione si ritrovava a fronteggiare la pesante assenza di Alfredo Minichini, Bossis si reca immediatamente a casa di Gabriella Onesto, compagna di Michele Minichini che a sua volta ricopriva un ruolo di rilievo all’interno dell’organizzazione. A riprova delle aspettative che in quel momento storico si riversano sul giovane Bossis vi è la lettera che il neodetenuto Alfredo Minichini consegna al suo pupillo servendosi della moglie come tramite.
In quella missiva, Alfredo Minichini consegna un messaggio ben preciso a Bossis che il giovane, dal suo canto, esegue alla lettera: quella stessa sera, insieme a Ciro Postiglione, suo amico inseparabile, nonchè braccio destro, compie un’azione dimostrativa ben precisa voluta per consacrare il passaggio del testimone. A bordo del famigerato Transalp utilizzato da Alfredo Minichini, i due ragazzi sfilano tra le strade del quartiere, passando simbolicamente per il rione Conocal. Una scorribanda che terminò sotto casa di Francesco Audino, la figura posta al vertice dell’organizzazione. Lungo il tragitto, i due ragazzi in moto, riuscirono anche ad eludere i controlli di una volante della polizia di Stato con la quale innescarono un inseguimento.
In questo modo Alessio Bossis annunciò agli esponenti della malavita locale che era lui il successore di Alfredo Minichini.
E’ così che un giovane poco più che maggiorenne diventa il punto di riferimento dei fratelli Minichini, sentendosi legittimato ad intervenire sul territorio per conto e per nome di questi ultimi.
E’ in questo frangente che la intorno alla figura di Alessio Bossis iniziano ad aleggiare una serie di episodi che concorrono ad accrescere l’aurea di fascino agli occhi del giovane del quartiere. Bossis godeva dell’ammirazione dei suoi coetanei, in primis, per le sue doti calcistiche. Un asso nella manica che ha facilmente concorso a creare ammirazioni e proseliti intorno alla sua figura, esattamente come accadde a Marco Di Lauro, rampollo dell’omonima famiglia/clan radicata nell’area Nord di Napoli.
Dal fermo a bordo di una Porche Cayenne del valore di 80mila euro che guidava pur non avendo conseguito la patente, ai continui interventi risolutivi, invocati da Martina Minichini – sorella di Michele ed Alfredo – ma anche da altri affiliati al clan, a riprova dell’autorità che viene riconosciuta al giovane, passando per il messaggio che Alfredo gli fa pervenire dal carcere: “digli ad Alessio ha detto Alfredo fai bene, schiattagli la testa…digli fai bene… vai… dagli un bacio, salutamelo… digli Alfredo ti saluta, ti manda un bacio forte, forte… digli che fa il bravo… di nn fare troppo… se pure tu… cioè… è finita”. Il mentore dal carcere palesa segnali di preoccupazione mirati a sventare il pericolo che anche il giovane Bossis venga arrestato e lo incita ad adottare un profilo basso per seguitare a curare gli affari del clan.
Un evento temuto che però neanche i consigli di Minichini riuscirono a scongiurare: Bossis fu arrestato insieme a Pecoraro, Postiglione ed Aprea junior il 28 marzo del 2019 per la “stesa” compiuta appena nove giorni prima a piazza Trieste e Trento a Napoli ed indirizzata ad alcuni esponenti del clan Mariano, imparentati con la fidanzata di Bossis. Quella stessa sera, prima di quel raid, il gruppo capeggiato da Bossis, si rese autore di un altro episodio violento: dopo aver consumato cibi e bevande seduti all’esterno di una nota pizzeria take-away della zona, il commando andò via senza pagare il conto. Quando il titolare dell’attività li rincorse per chiedergli di saldare il conto, di tutta risposta, subì un violento pestaggio, sotto gli occhi attoniti della moglie e della sua bambina di pochi anni.
L’arresto di Bossis sancì un duro colpo per i clan alleati di Napoli est. A riprova della credibilità acquisita dal giovane, vi è l’impegno profuso da Michele Minichini che conobbe il pupillo di suo fratello Alfredo in carcere, per assicurargli una difesa tecnica adeguata con l’auspicio che potesse essere rapidamente scarcerato per tornare ad occuparsi degli affari del clan. A tal proposito Michele Minichini e Gabriella Onesto si attivarono immediatamente per assicurargli una detenzione meno gravosa possibile, sia in termini assistenziali che economici: Gabriella Onesto si occupava di far recapitare alla madre di Bossis i 200 euro necessari per il suo mantenimento in carcere, mentre Michele Minichini propose di affiancare alla madre del giovane una “finta fidanzata” che si sarebbe occupata di assistere la donna, accompagnandola ai colloqui e al contempo di confezionare il vitto da introdurre in carcere. Un rispetto conquistato da Bossis a fronte dei “tanti sacrifici fatti a nome della famiglia”. Dapprima Francesco Audino e poi Gabriella Onesto si recavano personalmente a casa della nonna materna di Bossis, nel rione San Rocco a Ponticelli, per incontrare la madre del giovane e consegnargli i 200 euro che gli venivano garantiti dall’organizzazione per il mantenimento in carcere. Particolarmente indicativa è una conversazione intercorsa tra Bossis e sua madre poco prima che venisse arrestato: il giovane consegna alla genitrice seicentomila euro in contati chiedendole di nasconderli, in quanto quei soldi sarebbero serviti per garantirgli una serena detenzione. In effetti, la madre occultò i soldi in un pigiama rosa. Di tutt’altra caratura le conversazioni tra Ciro Postiglione, fedelissimo di Bossis e sua madre. La donna, infatti, allarmata al cospetto di un tutt’altro che improbabile agguato indirizzato al figlio, non mancò di indirizzargli una minaccia esplicita, annunciando la volontà di denunciarlo personalmente, se avesse seguitato a delinquere.
Lo spessore criminale e l’importanza che Bossis ricopriva agli occhi degli altri affiliati è ampiamente sottolineato nei colloqui intercettati in carcere tra i vari membri dell’organizzazione. Nella fattispecie, nell’estate del 2019, quando tra i ranghi dell’organizzazione serpeggiava l’ipotesi che Tommaso Schisa potesse pentirsi, Francesco Audino pensò di tagliare il sostentamento corrisposto a Bossis fino a quel momento per incrementare “la mesata” del figlio della “pazzignana” al fine di scongiurare la temuta collaborazione che di fatto è poi avvenuta. Una decisione che mandò su tutte le furie Michele Minichini. Un atteggiamento dal quale trapela la sua prioritaria intenzione di trattare Bossis con i guanti di velluto. Un pupillo da preservare e coccolare perchè destinato ad essere scarcerato a breve e che pertanto sarebbe tornato utile alla causa del clan.
Una delle vicende che più di ogni altra concorre a ricostruire lo spessore criminale di Alessio Bossis è quella compiuta per ottenere “soddisfazione e rispetto”: a gennaio del 2019, costrinse la famiglia del fidanzato della sua ex a lasciare l’alloggio popolare in cui vivono in viale Carlo Miranda a Ponticelli. La figlia di Antonio D’Amico, il temuto Tonino fraulella, un tempo era legata sentimentalmente a Bossis. La ragazza troncò la relazione per ritornare insieme al suo primo fidanzato, Francesco Petri, dal quale ha avuto anche un figlio. La reazione di Bossis al tradimento fu efferata: dapprima pestò Petri e poi ordinò lo sgombero forzato dell’intera famiglia dall’alloggio in cui abitavano. Infine, si appropriò della casa sottratta con la forza all’attuale fidanzato della sue ex. Un pestaggio di cui Bossis si era vantato al telefono con un amico: “non le sta mettendo più le storie, sai perchè? Ha la faccia brutta… e sta proprio inguaiato sta!”, afferma non riuscendo a trattenere le risate di scherno.
La stessa madre di Bossis si professa compiaciuta e soddisfatta per l’operato del figlio, non solo per il fatto che avesse troncato la relazione con quella ragazza che non gli era mai piaciuta, ma la donna si dice soddisfatta anche per il modo plateale utilizzato dal figlio per punire quella mancanza di rispetto, esiliando dal quartiere non solo la ragazza e il suo fidanzato, ma anche i parenti, rei di aver appoggiato quel tradimento. “Ha iniziato a buttare prima la nonna giù da casa, pure la zia l’ha cacciata… ha detto: ‘Le merde, le merde in questo parco non ci possono stare, ve ne dovete andare’!” La donna, tuttavia, palesa preoccupazione, in virtù del fatto che la ragazza sia la figlia di Antonio D’Amico, una figura di spicco della malavita locale: “ma comunque non ci dimentichiamo il padre… è sempre… il padre è sempre il padre là, quello se scrivono al padre e dicono tutto lì, chi lo sa, quello che succede.”
L’equilibrio venne ripristinato solo in seguito all’intervento di Ciro Perrella, compagno della madre di Petri e zio della ragazza. Nell’ambito della conversazione telefonica intrattenuta con Bossis, servendosi del telefono cellulare di cui dispone malgrado si trovi in carcere, Ciro Perrella dichiara al giovane: “solo persone come noi resistono ad andare avanti, perchè abbiamo le palle vere e io lo so che tu le tieni perchè mi hanno spiegato.” Bossis dal suo canto rilancia: “le soddisfazioni già me le sono prese, altra gente non ha l’onore di parlare con me”. Proprio dai dialoghi intercorsi tra i due trapela che Bossis avesse occupato l’immobile per ragioni non direttamente riconducibili al contesto camorristico, ma solo per affermare le sue qualità di “uomo d’onore”, seppure tradito ed abbandonato dalla sua fidanzata.
“Stavo tutto a Sibillo”, “Alessio fa il sistema”, “Come è bello fare la guerra a tutti”, “Voglio fare la guerra a tutti”, “Voglio prendermi il mio parco”.
Sono solo alcune delle frasi riconducibili ad Alessio e alla sua “paranza”, quel gruppo di ragazzi che fin dalle ore successive alla morte del 22enne ha rilanciato “onore e vendetta” a suon di spari e video strappalacrime sui social network.