Oltre duecento anni di carcere sono stati inflitti nei giorni scorsi dal Tribunale di Napoli al termine di un processo, celebrato con il rito abbreviato, che ha visto alla sbarra ventitré imputati ritenuti affiliati al clan Silenzio del quartiere San Giovanni a Teduccio di Napoli, arrestati il 30 novembre del 2020 dalla Squadra Mobile di Napoli. In particolare sono stati condannati a 20 anni di reclusione Francesco Silenzio, 18 anni, invece, per Alfonso e Vincenzo Silenzio, le tre figure apicali dell’omonimo clan.
Un verdetto importante che ha assunto un significato particolarmente rilevante per una famiglia che ha vissuto sulla propria pelle le angherie del clan Silenzio, vedendosi costretta a lasciare la propria abitazione.
Un calvario raccontato da uno dei protagonisti di questa sventura, un giovane oggi diventato un poliziotto:
“Era dicembre del 2018 quando accadde tutto. Io in quel periodo ero a fare tirocinio da un commercialista. Precisamente era il 7 dicembre, quando mi arriva una telefonata da mia mamma che con una voce abbastanza preoccupata mi dice: “Devi tornare a casa, poi ti spiego”.
Tornai a casa e mi raccontarono tutto quello che era accaduto.
Francesco Silenzio si era recato a casa dei miei nonni che abitavano sul mio stesso pianerottolo, per intimare a loro e alla mia famiglia di lasciare le nostre abitazioni. Il motivo era che girava voce che il fratello di mia mamma aveva una relazione con l’ex moglie di Silenzio. Una ripicca, un modo meschino di colpire mio zio attraverso noi che eravamo estranei a tutto. Ci facemmo forza e con tanta paura raccogliemmo più cose possibili, oggetti personali di una vita intera, indumenti e chi più ne ha più ne metta. Non avevamo altre alternative in quel momento e così lasciammo le nostre abitazioni.
Io, mia mamma e mio fratello andammo a stare dalla sorella di mia madre, mentre i miei nonni furono ospitati da altri parenti.
In seguito affittammo una casa insieme ai miei nonni.
Due mesi dopo quell’inaspettato e spiacevolissimo evento, mi arruolai nell’esercito e nonostante tutto trovai la forza di affrontare l’iter addestrativo, tra pianti di dolore e nostalgia. Mi facevo forza sognando giorni migliori.
Circa sette mesi dopo che eravamo stati costretti ad andare via, delle persone che abitavano nel nostro stesso palazzo entrarono nelle nostre case e distrussero tutto, spogliandoci della nostra intimità, rubando ogni speranza di poter ritornare a quel che era stato. Per questo, al cospetto di quell’ennesimo atto di sopruso, stanchi di subire in silenzio, andammo a denunciare tutto ai carabinieri con un’unica speranza: avere giustizia.
A distanza di tempo, giustizia è stata fatta, io dai quei momenti avversi sono uscito più che vincitore, poiché sono entrato in polizia e quindi ho rinsaldato il mio posto dalla parte della legge. Quella legge che a me e alla mia famiglia ha assicurato giustizia. La mia storia e quella della mia famiglia insegna che lo Stato c’è ed è accanto alle persone oneste ed è stato in grado di dare un po’ di senso a tutta la sofferenza che la camorra ci ha causato è che è stata in parte attenuata da quelle sentenze di condanna.
Mi auguro che la mia testimonianza funga da monito a chi ogni giorno subisce soprusi da queste persone che non conoscono altro modo di vivere, se non creare scompiglio nelle vite altrui. Ricordate che l’unica arma è quella di denunciare e se anche questo comporterà sacrifici, almeno vivrete il resto dei vostri giorni a testa alta.”