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Omicidio Bossis, l’ultimo atto dell’eterna faida di Ponticelli

Luciana Esposito di Luciana Esposito
25 Ottobre, 2022
in Cronaca, In evidenza
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Omicidio Bossis, l’ultimo atto dell’eterna faida di Ponticelli
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Aveva compiuto 22 anni a febbraio Alessio Bossis, il giovane freddato da sette colpi di pistola calibro nove nel parcheggio di “In piazza”, l’area ristoro in via Monteoliveto a Volla che raccoglie bar, ristoranti, pizzerie. Uno dei luoghi più frequentati dai residenti in zona, come comprova la massiccia presenza di persone nell’area parcheggio anche quando è stato repentinamente erto a teatro dell’agguato dai sicari entrati in azione per uccidere Bossis nel tardo pomeriggio di lunedì 24 ottobre.

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Chi era Alessio Bossis e perchè è stato ucciso in un agguato di chiara matrice camorristica all’età di 22 anni?

Malgrado provenisse da tutt’altra realtà, nato in una famiglia abbiente, secondo di tre figli, Alessio ha scelto di intraprendere quella strada senza via d’uscita che ha risucchiato la vita di tanti altri giovani prima di lui, quando non aveva ancora raggiunto la maggiore età. Ribattezzato dai media “lo specialista delle stese” per sottolinearne la puntuale frequenza con la quale era solito mettere la firma su raid a scopo intimidatorio indirizzati ai rivali, Bossis è finito seriamente nei guai per la prima volta all’età di 19 anni, quando capeggiò “la stesa” in piazza Trieste e Trento. Una spedizione punitiva voluta per fare un affronto ai rampolli del clan Mariano dei Quartieri Spagnoli con i quali la sera precedente, lui e il suo gruppo di amici, avevano avuto un litigio in discoteca.

Prima di quel raid, però, Bossis e la sua paranza, si erano rifocillati in una nota pizzeria presente in piazza per poi allontanarsi senza pagare il conto. Il locale si accingeva a chiudere, vista l’ora tarda, il proprietario era in compagnia di sua moglie e della sua bambina di pochi anni, inseguì la comitiva per intimargli di saldare il conto e di tutta risposta venne aggredito dal gruppo di giovani.

Un retroscena che ben fotografa la ferocia del gruppo, intenzionato a dettare legge ovunque e a qualunque costo.

In ogni caso, il raid messo a segno quella sera gli è costato una condanna ad otto anni di reclusione in primo e secondo grado, ma la cassazione aveva riaperto il caso di recente, complici alcune intercettazioni inutilizzabili. Era sottoposto alla sorveglianza speciale, a dispetto dei suoi 22 anni, perchè Bossis era considerato un elemento di primo ordine dello scacchiere camorristico dell’area orientale di Napoli.

Bramava di fondare un clan tutto suo, già da prima di finire in carcere e per questo aveva radunato intorno a sé un gruppo di giovani originari di Volla, suo stesso comune di provenienza che poi erano confluiti nel clan De Luca Bossa-Minichini del quale anche Bossis era o è stato parte integrante.

Questo il primo quesito da chiarire. Secondo alcune fonti, il 22enne di recente avrebbe optato per la scissione richiamando a sé le fedeli reclute vollesi al soldo del clan del Lotto O per tentare di concretizzare il sogno cullato all’incipit della carriera camorristica fondando un sodalizio autonomo. L’unico dato certo è che era in compagnia dei suoi amici più fedeli quando è finito nel mirino di due killer con il volto coperto da passamontagna. Poteva essere una mattanza, una spedizione punitiva nella quale “lasciare a terra” almeno tre rivali, invece, hanno ucciso solo Bossis. Un’esecuzione pianificata dietro la quale si cela un disegno ben preciso, voluto per eliminare solo il 22enne.

Per quanto l’agguato ben si presti ad almeno due ipotesi investigative, la teoria più accreditata appare quella che lo incastona nella faida in corso per il controllo del quartiere Ponticelli tra i De Luca Bossa e i De Micco. Seppure Bossis fosse imparentato con Salvatore De Micco, in quanto cugino di sua moglie, questo dettaglio potrebbe non essere bastato a garantirgli l’immunità consentendo ai “Bodo” di mettere la firma sull’ennesimo delitto eccellente utile a rilanciarne l’egemonia. Un’ipotesi avvalorata da un altro dettaglio tutt’altro che trascurabile in un contesto in cui il linguaggio della camorra codifica messaggi ben precisi.

L’agguato non è avvenuto a Ponticelli, bensì a Volla, in una zona che non rientra nel campo di battaglia dove si sta combattendo la faida tra i due clan. Per compiere un omicidio fuori dai confini di propria competenza, un clan deve beneficiare del benestare dell’organizzazione che controlla quel territorio.

In tale ottica, le intercettazioni ambientali registrate in casa De Micco e che hanno consentito di ricostruire le fasi salienti dell’omicidio del 23enne Carmine D’Onofrio, portando al fermo del boss Marco De Micco e di altre figure di spicco del clan, hanno concorso a svelare un altro retroscena importante: i rapporti che intercorrevano tra il boss di Marco De Micco e Salvatore Alfuso detto ‘o fuso, figura apicale del clan Veneruso-Rea operante a Volla. Tant’è vero che il nome di Alfuso finì tra quello dei fermati propri per l’omicidio D’Onofrio e poi rilasciato, perchè il G.i.p. ritenne insussistenti gli indizi a suo carico. 

Un dettaglio che lascia intravedere il viatico che ha potuto portare i De Micco a disporre dello spessore camorristico utile per vedersi accordare il consenso per compiere l’omicidio di Bossis in terra vollese.

A dispetto del clima di calma apparente piombato su Ponticelli nelle ultime settimane, nei giorni precedenti si erano registrate delle fibrillazioni portatrici di presagi tutt’altro che rincuoranti. Così come le lamentele che con crescente insistenza serpeggiavano nei rioni in odore di camorra circa l’atteggiamento irriverente adottato da Bossis, concorrevano a delineare uno scenario dagli esiti prevedibili.

Malgrado Bossis, nei giorni scorsi, avesse confessato ad alcuni amici di essere perseguitato da un brutto presentimento, lasciando intendere che in lui potesse albergare la consapevolezza di rischiare di morire ammazzato, i familiari stavano portando avanti l’ennesima corsa contro il tempo, battendosi per fargli ottenere l’affidamento al lavoro affinché potesse accantonare le mire camorristiche e seguire le orme paterne andando a lavorare nell’azienda di famiglia.

La camorra, invece, per l’ennesima volta, ha imposto il consueto epilogo violento.

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