30 settembre 2021, due giorni dopo l’esplosione della bomba indirizzata al boss Marco De Micco, poco dopo la mezzanotte, nella veranda di casa del boss, le ambientali della polizia registrano l’interrogatorio violento del presunto complice dell’attentatore.
Una sequenza violenta e serrata di minacce e percosse, introdotta dal rumore dello scarrellamento di un’arma da fuoco al quale fa seguito l’esplosione di un colpo. Subito dopo, uno scooter si allontana.
Di lì a poco, nel garage dell’abitazione del boss di Ponticelli, entrano diversi scooter.
Una persona viene condotta al cospetto del boss. Intimidita, malmenata, minacciata, affinché riveli le informazioni pretese: l’ammissione della sua partecipazione all’attentato e il nome del complice.
Il boss Marco De Micco, con la complicità della madre, Maddalena Cadavero, e dei suoi fedelissimi Ciro Ricci e Giovanni Palumbo, interroga brutalmente una persona che gli investigatori identificano in Giovanni Mignano.
“Facciamo presto… Chi ti ha mandato?”
“Ha proprio una faccia verde…”
“Giovà… cominciamo a dire la verità”
“Ti devi pentire! E io mi scordo di te!… Ti ho visto nel video!”
“Stronzo! Mi devi dire dove sta!… Quel porco del padre mi sembra!”
Sono solo alcune delle frasi indirizzate al soggetto interrogato dal boss e da sua madre. La frase rivolta al soggetto interrogato che fa riferimento al padre, in particolare, assume una cruciale importanza nel concorrere ad indentificare la persona al cospetto del boss Marco De Micco.
Giovanni Mignano è il figlio di Giuseppe Mignano detto Peppe scè scè, ex affiliato al clan Sarno che pagò con la vita la scissione voluta per appoggiare la scalata al potere di Antonio De Luca Bossa. I Sarno lo condannarono a morte anche per punirne la partecipazione all’attentato con autobomba ordito da Antonio De Luca Bossa per annunciare la nascita del suo sodalizio camorristico autonomo, dopo una lunga gavetta trascorsa alla mercè della cosca del Rione De Gasperi. Mignano fu indicato ai Sarno tra i gregari di De Luca Bossa che materialmente piazzarono l’ordigno nella ruota di scorta dell’automobile di Luigi Amitrano, nipote ed autista del boss Vincenzo Sarno, mentre era in sosta nel parcheggio del Santobono, l’ospedale dove era ricoverata la figlia di Amitrano. L’attentato era stato pianificato con l’intenzione di uccidere zio e nipote, mentre il boss Vincenzo Sarno, come ogni domenica, si sarebbe recato al commissariato per adempiere all’obbligo di firma al quale era sottoposto. Invece, complice il dissesto del manto stradale, l’ordigno esplose la sera prima, mentre Amitrano rincasava dopo aver trascorso l’intera giornata al capezzale della figlia.
L’interrogatorio prosegue e sotto le incalzanti minacce di Marco De Micco e dei suoi gregari, sollecitato per l’ennesima volta a rivelare il nome del suo complice, esclama: Carmine.
Dopo quell’esternazione, Marco De Micco chiede conferme rispetto all’identità della persona indicata, chiedendo se fosse realmente Carmine D’Onofrio, il figlio naturale di Giuseppe De Luca Bossa, ma la conversazione è indecifrabile.
Seppure le regole imposte dal codice d’onore prevedano che il boss uccida il giovane torchiato, dopo aver ottenuto le informazioni richieste, Marco De Micco lo lascia andare.
Giovanni Mignano verrà arrestato pochi giorni dopo l’assassinio di Carmine D’Onofrio e finirà nell’occhio del ciclone all’indomani del blitz che ha fatto scattare le manette per il boss Marco De Micco e per gli affiliati all’omonimo clan ritenuti responsabili, a vario titolo, dell’omicidio del 23enne figlio illegittimo di Giuseppe De Luca Bossa.
Nelle settimane successive all’assassinio del 23enne, i familiari di Mignano si interrogano circa la sua responsabilità, nel commentare la notizia riportata sul nostro giornale che annunciava che “Carmine D’Onofrio era stato tradito dall’amico di cui più si fidava” in quanto, negli ambienti camorristici era trapelata la notizia del pestaggio del complice che per salvarsi la vita aveva “venduto” il giovane, gettandolo il pasto all’ira vendicatrice del boss Marco De Micco. Seppure la madre di Mignano non ricordi di aver riscontrato segni di percosse sul volto e sul corpo del figlio, confessa alla nuora che all’indomani dell’omicidio di D’Onofrio avesse comunque adottato un atteggiamento prudente, evitando di uscire soprattutto al calar del sole.
Quando le intercettazioni che ricostruiscono l’interrogatorio avvenuto in casa De Micco diventano di dominio pubblico, Giovanni Mignano, dalla cella in cui è detenuto e che divide con Umberto De Luca Bossa, cugino di Carmine D’Onofrio, professa a gran voce la sua estraneità ai fatti contestati.
Scrive una lettera che i familiari consegnano agli organi di stampa nella quale sostiene di non essere lui la persona interrogata in casa De Micco ed invoca a gran voce di essere sottoposto ad una perizia fonica.
Un atteggiamento plausibile, in virtù della tutt’altro che remota ipotesi di vendetta da parte dei De Luca Bossa che in questo momento storico più che mai appaiono intenzionati a punire tutti coloro che hanno contribuito a determinare la morte di Carmine.
Ad auspicare che la perizia fonica possa confermare l’estraneità ai fatti di Giovanni Mignano è anche il boss Marco De Micco che vede in quel verdetto l’unico spiraglio al quale appigliarsi per far decadere le accuse che pendono sul suo capo. Seppure la richiesta di Mignano non sia ancora stata accolta, tra i grigi palazzoni del Lotto O di Ponticelli – fortino del clan De Luca Bossa – di recente campeggia un rumors. Mignano sarebbe a conoscenza dell’identità del vero soggetto torchiato dai De Micco e sarebbe pronto a rivelare quel nome ai magistrati in sede di interrogatorio.
Tuttavia resta da chiarire un altro aspetto anomalo della vicenda: perchè Marco De Micco non ha ucciso la persona interrogata, dopo aver ricevuto le informazioni richieste?
La risposta a questo quesito che si fa spazio tra le crepe delle rovine del Lotto O, conduce dritto a Mignano e rappresenta un’altra prova granitica della sua colpevolezza. Negli ambienti in odore di camorra, si vocifera che quella non fu la prima circostanza in cui il figlio di Peppe scé scé abbia fornito al boss Marco De Micco informazioni preziose. Pertanto, il boss lo avrebbe lasciato andare, con l’intenzione di seguitarne a servirsene all’occorrenza. Giovanni Mignano, a differenza del padre, non gode della fama del camorrista convinto e temprato. Un giovane dal carattere mite e riservato che ha svolto diversi lavori umili, dapprima in una cornetteria notturna, poi come muratore, e sarebbe finito tra le briglie della malavita solo perchè stanco di sgobbare per racimolare quattro soldi, quindi affascinato dal richiamo millantatore dei facili e ben più ingenti guadagni garantiti dalla camorra.
L’unico dato certo è che questa situazione ha concorso a creare un clima di acclarata incertezza che vede i De Luca Bossa temporeggiare, guardandosi bene dall’indirizzare qualsiasi tipo di minaccia ai parenti di Mignano, anche per sventare l’ipotesi di un suo probabile pentimento, seppure fermamente intenzionati ad attribuire a ciascun attore il ruolo preciso interpretato nel determinare le circostanze che hanno portato all’assassinio di Carmine De Luca Bossa.
Dal loro canto, i De Micco sperano che Mignano possa contribuire a fornire informazioni utili a far vacillare le accuse a carico di Marco De Micco, in questo momento storico più che mai, in virtù dell’ennesima faida in corso, ancora una volta, con i De Luca Bossa.