Gli abitanti del quartiere Ponticelli, lo ricordano bene il 29 settembre del 2021.
La sera precedente, l’esplosione dell’ordigno piazzato all’interno del cortile dell’abitazione del boss Marco De Micco in via Luigi Piscettaro, fu udita chiaramente anche a diversi chilometri di distanza. E, fin da subito, fu chiaro a tutti che quel boato annunciava l’ennesima escalation di violenza.
Un fragoroso boato che mandò in frantumi anche i vetri delle abitazioni adiacenti, provocando il lieve ferimento di una madre e del figlio adolescente, raggiunti da alcune schegge.
Il cancello divelto e i vetri delle automobili del fratello e della moglie del boss parcheggiate all’interno del cortile, non furono, però, l’unico danno arrecato dall’ordigno. Quel raid aveva inflitto un duro, durissimo colpo all’orgoglio al leader della camorra locale, e non solo perché ne contestava apertamente e platealmente l’egemonia. Una supremazia conquistata rapidamente: scarcerato a marzo dello stesso anno, Marco De Micco era riuscito a riconquistare il controllo dei traffici illeciti portando a compimento una strategia rapida e risoluta che nel giro di pochi mesi aveva messo all’angolo i De Luca Bossa, gli eterni rivali che avevano approfittato del vuoto di potere scaturito dal primo, vero blitz che nel 2017 decapitò la cosca che lo stesso Marco De Micco aveva fondato nell’era post-Sarno e che in seguito al suo arresto era stato ereditato dai fratelli Salvatore e Marco.
Motivo per il quale, quella bomba, quel sonoro affronto subìto, andava redarguito in maniera inequivocabile e non solo perchè aveva concorso ad attirare su De Micco l’attenzione delle forze dell’ordine, tant’è vero che poco dopo l’esplosione gli agenti della Squadra Mobile di Napoli piazzarono alcune microspie in diverse stanze dell’abitazione del boss. Ciò che accadde all’indomani del raid, sul quale fin da subito si leggeva nitidamente la firma dei De Luca Bossa, è pertanto documentato dalle intercettazioni ambientali.
Marco De Micco palesa una rabbia indomabile per l’attentato subìto, soprattutto per un motivo ben preciso: per raggirare l’ostacolo insito nel cancello d’ingresso che ostruisce la visuale dall’esterno, l’attentatore ha gettato la bomba alla cieca, tant’è vero che l’ordigno è esploso proprio nella zona del cortile dove la figlia del boss è solita intrattenersi a giocare con i cugini. Un dettaglio che concorre ad inasprire l’impellente necessità di replicare quanto prima all’affronto subìto e non solo per non “perdere la faccia” – preservare la credibilità confacente allo status di boss – ma soprattutto per punire quell’atto scellerato in cui ad avere la peggio potevano essere i figli, i nipoti di De Micco.
“Ignoranti e pure vigliacchi – commentano all’indomani del raid le donne di casa De Micco – perchè tu non puoi sapere chi ci sta e chi vuoi uccidere, alle creature”.
In questo clima teso e concitato prendono in via le serrate indagini a tappeto ordinate dal boss per stanare i responsabili del raid.
Il giorno seguente, il 30 settembre, una persona viene condotta in casa De Micco ed interrogata, minacciata e percossa dal boss e dai suoi fedelissimi. Gli inquirenti identificano il soggetto interrogato in Giovanni Mignano, figlio del braccio destro di Antonio De Luca Bossa che ha pagato con la vita il tradimento al clan Sarno per appoggiare la scissione voluta dai De Luca Bossa.
Mignano viene condotto al cospetto di De Micco, proprio perchè viene annunciata al boss la sua partecipazione all’attentato a lui indirizzato due giorni prima.
Giovanni Mignano aveva deciso di seguire le orme paterne, dopo aver collezionato una sfilza di lavori onesti e dignitosi ed era entrato a far parte di quello stesso clan, capeggiato dagli eredi di Antonio De Luca Bossa, Umberto prima ed Emmanuel poi.
Nell’ambito del violento interrogatorio registrato in casa De Micco, trapela la rivelazione che ha decretato la condanna a morte di Carmine D’Onofrio, il 23enne figlio naturale di Giuseppe De Luca Bossa, fratello di Antonio. E’ il giovane interrogato a fare il suo nome al boss, indicandolo come l’attentatore, seppure si limiti a pronunciarne solo il nome di battesimo: Carmine.
Una rivelazione che consente al boss di pianificare l’omicidio del 23enne in tempi record: Carmine D’Onofrio verrà freddato da un killer solitario nella notte tra il 6 e il 7 ottobre, sotto gli occhi attoniti della compagna in procinto di partorire.
Ignaro di essere a sua volta intercettato, lo stesso Carmine, la sera del raid, si vanta con un’amica delle gesta compiute e le rivela di essere stato lui ad indirizzare quella bomba a De Micco, aggiungendo di aver lanciato oltre il cancello non solo l’ordigno, ma anche un biglietto sul quale c’era scritto: “Siete le palle dei De Luca Bossa”.
Un giovane che aveva scoperto da poco di essere il figlio di Giuseppe De Luca Bossa, un cognome che a Ponticelli è sinonimo di camorra da più di 40 anni. Se fino a quando era cresciuto nella convinzione di essere il figlio di Giovanni, un lavoratore umile ed onesto che si spacca la schiena per racimolare soldi guadagnati dignitosamente, Carmine aveva cullato il sogno di una vita normale, la consapevolezza di appartenere alla famiglia/clan più longeva del quartiere lo ha scosso e mutato profondamente, traghettandolo verso un cambiamento radicale che lo ha spinto verso il punto di non ritorno: Carmine D’Onofrio ha pagato con la vita pochi mesi d’affiliazione.
E la sua morte ad altro non è servita che ad alimentare il livore di vendetta covato dai De Luca Bossa. A gennaio del 2013, infatti, anche il figlio 19enne di Anna De Luca Bossa, sorella di Giuseppe ed Antonio, era stato assassinato dai De Micco.
A distanza di un anno da quel fragoroso boato, la camorra ponticellese seguita ad alimentare le logiche di quella guerra dove il controllo del territorio funge, ormai, solo da pretesto, mentre ad animare la disputa concorrono decenni di ruggini, rancori e ferite.