Lo scorso 24 agosto, un agguato indirizzato a Christian Marfella, fratellastro di Antonio De Luca Bossa, ha concorso ad arroventare la faida di camorra che anima le strade di Ponticelli, a fasi alterne, ormai da diverso tempo.
Un’auto scura, di grossa cilindrata, con a bordo un’altra persona oltre all’autista, lo attendeva in sosta, con il motore acceso, nella zona delle cosiddette “case murate” del Rione De Gasperi di Ponticelli. Scarcerato lo scorso 27 giugno, ma all’epoca detenuto agli arresti domiciliari e controllato a distanza con il braccialetto elettronico, Marfella beneficiava di due ore di permesso, dalle 18 alle 20, e i rivali erano certi che, anche quel giorno, avrebbe percorso la strada che collega il rione De Gasperi a Via Angelo Camillo De Meis, come era sua consueta abitudine.
“Le scese” di Christian Marfella, in sella ad una moto di grossa cilindrata, volute per marcare il territorio e “sfidare” i rivali del clan De Micco-De Martino, contestandone la supremazia, hanno tenuto banco per l’intero mese di agosto, suscitando non poca apprensione tra i civili che carpivano in quella condotta una minaccia tutt’altro che remota. Timore che si è rivelato più che fondato, all’indomani dell’agguato indirizzato proprio a Marfella. In maniera tutt’altro che cauta, il figlio di Teresa De Luca Bossa e del boss di Pianura Giuseppe Marfella, ha quotidianamente percorso sempre lo stesso tragitto nell’ambito del quale, per l’appunto, l’ex fortino dei Sarno era la prima tappa obbligata. Non è stato difficile, quindi, per i rivali pianificare un agguato finalizzato a stroncare l’irriverenza del rampollo della famiglia De Luca Bossa. Tant’è vero che, quel pomeriggio, non appena Marfella si è addentrato nel Rione De Gasperi, un killer a bordo dell’auto che lo attendeva per giustiziarlo, ha iniziato ad esplodergli contro una raffica di proiettili, sprezzanti della presenza dei bambini intenti a giocare. Non riuscendo a colpirlo, hanno così iniziato ad inseguirlo, seguitando ad esplodergli contro una raffica di proiettili. In quella circostanza Marfella ha dato ampia prova delle sue abilità da centauro, schivando con destrezza i colpi d’arma da fuoco a lui indirizzati dal cecchino che – a volto scoperto – si è sporto dal finestrino con l’auspicio di giustiziare l’erede del clan De Luca Bossa con il chiaro intento di punirne l’irriverenza, mettendo fine alle velleità del clan che da diversi mesi è tornato a contestare l’egemonia dei De Micco.
Un inseguimento che è proseguito lungo via De Meis e che si è protratto per diversi metri, fino a quando Marfella non è riuscito a dileguarsi per trovare riparo nel Lotto O, il fortino del clan De Luca Bossa.
Una sequenza di spari che si è tradotta nel ferimento non grave di uno dei bambini presenti sul posto erto a teatro dell’agguato.
Un mancato agguato che ha sortito comunque l’effetto sperato in quanto Marfella ha adottato una politica più accorta e prudente, guardandosi bene dal mostrarsi ancora in giro, almeno per qualche tempo. Di recente, però, ha rilanciato l’appartenenza alla famiglia-clan d’appartenenza con un tatuaggio: De Luca Bossa. Un marchio indelebile voluto per esorcizzare la paura e rivendicare il vincolo d’amore ed affiliazione che lo lega al clan fondato dal fratellastro Antonio De Luca Bossa. Il desiderio di emulare le gesta di quel fratellastro arrestato quando era solo un bambino lo hanno spinto ad insediarsi a Ponticelli, a differenza degli altri figli del boss Giuseppe Marfella che sono rimasti a Pianura.
Forte della scarcerazione recente di Giuseppe De Luca Bossa, il clan del Lotto O è immediatamente tornato a mostrare i muscoli ai rivali, seppure inscenando schermaglie di poco conto – delle stese e un raid finalizzato a schernire i rivali – alle quali i De Micco hanno prontamente risposto.
Dopo gli episodi eclatanti che hanno animato le notti recenti, come sovente accade nell’ambito dell’eterna faida di Ponticelli, le strade del quartiere sono ripiombate in un clima taciturno che non necessariamente è sinonimo di un patto di non belligeranza sottoscritto dai clan in guerra.
Tra i palazzoni del Lotto O si narra che all’indomani dell’incendio che ha distrutto l’auto nuova di zecca della sorella di Antonio De Luca Bossa, notoriamente estranea alle dinamiche camorristiche, si siano registrate altre incursioni armate dei “Bodo” nella roccaforte dei rivali che solo per una fortuita casualità non hanno portato al ferimento o alla morte di reclute o di elementi di spicco del clan De Luca Bossa.
L’acclarata capacità dei De Micco di mostrarsi pronti ad impugnare le armi per mettere la firma su azioni eclatanti e non per lanciare avvertimenti, potrebbe essere una delle motivazioni che ha indotto i De Luca Bossa a temporeggiare, unitamente al messaggio a loro indirizzato incendiando l’auto di un membro della famiglia estranea alle dinamiche camorristiche. Da tempo, nei rioni in odore di camorra del quartiere, si vocifera che i De Luca Bossa stessero covando l’intenzione di uccidere uno dei figli dei fratelli De Micco, sprezzanti della sua giovane età, per vendicare la morte di Antonio Minichini e Carmine D’Onofrio, due giovani appartenenti alla famiglia De Luca Bossa giustiziati dai sicari del clan De Micco all’età di 19 e 23 anni.
Al cospetto del messaggio esplicito lanciato dai De Micco che dal loro canto manifestano la volontà di non restare a guardare, professandosi pronti a non fare sconti, a loro volta, ai familiari della cosca rivale che con le logiche della faida non hanno nulla da spartire, è evidente che le fibrillazioni in corso avessero raggiunto il massimo livello di tensione.
Il clan del Lotto O potrebbe essere temporaneamente concentrato a studiare la strategia più efficace per stanare i nemici e compiere l’agognata vendetta, bramata ed annunciata da tempo.