“Mi avete scritto sui manifesti che sono buono da mangiare? Purtroppo per voi che vi muovete nell’ombra, sono un prete indigesto. Un essere umano disposto a sacrificare sé stesso con la massima umiltà, ma anche con la straordinaria forza della parola di Dio.”
È questa la risposta di don Antonio Coluccia dopo essere stato minacciato e appena prima di trovare la sua auto crivellata da una raffica di proiettili a Specchia, il comune vicino a Lecce dov’è nato.
È questa la motivazione che ha indotto il giornalista Riccardo Bocca a scegliere senza esitazioni il titolo del libro che ripercorre la vita e la missione di Don Antonio Coluccia: “il prete indigesto”.
Un libro che racconta la storia di Antonio, un giovane salentino, operaio in un calzaturificio e felicemente fidanzato, che dedicava il suo tempo libero al volontariato e all’attività sindacale e che sceglie di diventare “Don Antonio” quando parte volontario in Bosnia-Erzegovina e in Albania per portare viveri ai bisognosi. Proprio lì, poco più che 20enne, a contatto con i sacerdoti presenti sul fronte di guerra per aiutare i giovani e gli indifesi, scopre quella vocazione che lo porterà ad approdare a Roma dove, affrontando non poche difficoltà, trasforma una villa confiscata ad un boss della banda della Magliana in una casa di accoglienza che offre ospitalità e ristoro ai poveri e ai bisognosi, ma soprattutto ai giovani che riesce ad allontanare dalla criminalità, durante le sue incursioni nelle realtà in balia dello spaccio.
Già, perché Don Antonio Coluccia il soprannome di “prete antispaccio” lo ha conquistato sul campo. Armato del suo inseparabile megafono, quotidianamente irrompe nei rioni in ostaggio del business della droga per predicare il verbo della non violenza e invocare l’amore per la vita. Talvolta s’intrattiene a giocare a pallone con i bambini che incontra in quei luoghi. Il quartiere San Basilio a Roma, la sua Puglia, ma anche le periferie di Napoli.
Don Antonio porta avanti con voce ferma e squillante, la sua parola di pace ed amore, in tutti i luoghi in cui le sue orecchie giungono ad udire anche la più timida richiesta d’aiuto. Sprezzante delle minacce di morte che fioccano da parte di chi non vede di buon occhio il suo operato, Don Antonio seguita a condurre la sua missione: proteggere i deboli da chi li sfrutta e opprime, salvare i giovani dal richiamo della criminalità organizzata, schierarsi contro le ingiustizie sociali, opporsi a chi vuole distruggere e non creare, lottare contro chi traffica con i rifiuti tossici e sparge senza vergogna violenza e abusi.
Il suo è un credo sintetizzato in tre verbi: osare, rischiare, compromettersi.
E di giovani ne ha salvati tanti, non solo a Roma, ma anche a Napoli, città alla quale è legato da un sentimento speciale.
“Questa terra mi appartiene, il mio fondatore, il 15 maggio è stato fatto Santo, gli ho chiesto che uno dei miracoli che San Giustino deve fare in questo territorio è liberarlo dalla camorra”, ha spiegato Don Antonio durante un recente incontro pubblico a Pianura, il quartiere della periferia occidentale di Napoli nel quale si reca abitualmente, non solo per far visita ai suoi confratelli, ma anche per scuotere le coscienze dei cittadini e dei camorristi, all’indomani di “stese”, omicidi, fatti di sangue. Anche in quel contesto ha raccolto l’accorato appello delle madri che gli hanno affidato i loro figli per salvarli dalla droga o per indurli a tornare sulla retta via.
Don Antonio ha indirizzato il suo forte, crudo, diretto messaggio di condanna verso la camorra anche a Ponticelli, quando ha celebrato una messa in suffragio del giovane Carmine D’Onofrio, figlio naturale del ras Giuseppe De Luca Bossa, ucciso all’età di 23 anni davanti agli occhi attoniti della compagna al nono mese di gravidanza.
“La camorra è la negazione del Vangelo”, ha esclamato il sacerdote, sbattendo quella cruda realtà in faccia ai membri di una delle famiglie camorristiche più datate dell’area orientale di Napoli.
Costretto a vivere sotto scorta da anni, a fronte degli attentati subìti e delle esplicite intimidazioni che gli vengono costantemente indirizzate, tra le quali un coltello adagiato sull’altare e le bombe carta lanciate dai pusher in rivolta durante una delle sue tante incursioni nei quartieri capitolini adibiti a supermarket della droga, Don Antonio seguita a portare il suo verbo nelle periferie degradate ed emarginate, dove parlare di mafia, criminalità, malaffare è impresa davvero ardua.
Guai a definirlo eroe. Don Antonio non sarebbe in grado di conferire alla sua vocazione un’espressione diversa e meno ambiziosa, almeno fino a quando la droga e la criminalità seguiteranno a tenere in ostaggio le vite di tanti, tantissimi giovani. Un uomo che malgrado la paura, non ha mai rinunciato a rischiare per il bene degli altri. Una persona forte e semplice che con infinita determinazione consacra la sua esistenza a chi soffre nella povertà o ha smarrito la strada nell’indifferenza generale.