La storia di Rosalia Pipitone della Lia, una ragazza di 25 anni anni di Palermo, narra di un efferato delitto d’onore, mascherato in rapina. Un assassinio maturato per volere del padre della giovane che ordinò la morte di sua figlia per cancellare la macchia che aveva intaccato l’onore della famiglia, scaturita da una relazione extraconiugale di Lia.
L’assassinio di Lia scaturisce da una circostanza ben precisa: la giovane donna aveva comunicato al padre la volontà di abbandonare il tetto coniugale per andare a vivere da sola. Antonio Pipitone, il padre di Lia, è un uomo d’onore, è il boss dell’Arenella ed è il referente dei corleonesi Riina e Provenzano. E, in quanto uomo d’onore, il padre di Lia non può tollerare quello sfrontato atto di irrispettosa ribellione annunciato dalla figliae decide così di infliggerle la punizione prevista dal codice d’onore di Cosa Nostra: la morte.
Lia conobbe quello che divenne suo marito tra i banchi del liceo, l’unico luogo in cui la giovane poteva beneficiare di uno scampolo di libertà era la scuola. Tra le mura domestiche regnava un clima talmente opprimente che la giovane era persino priva di concedersi una passeggiata da sola.
Lia era un’artista, un’anima solare e gioiosa: amava il mare, la musica, leggere e scrivere. La sua voglia di vivere sovente si scontrava con il carattere altero ed autoritario del padre, tant’è vero che nell’estate del ’77 la giovane scappò di casa.
Dopo un soggiorno di circa una settimana a Ragusa, tornò a Palermo dopo aver saputo che il padre aveva iniziato a cercarla e a fare domande ai suoi amici. Si trasferì quindi a nel paese dove abitava il suo futuro marito e organizzò il matrimonio in chiesa, come avrebbe voluto il padre, che nonostante l’invito non partecipò alle nozze. Tornata a Palermo da donna sposata, affrontò il padre che, nonostante l’offesa, decise di aiutarla, liberando una casa per la giovane coppia nel quartiere dell’Arenella e facendo impiegare il genero presso una società di servizi.
Anche la vita coniugale entrò ben presto in rotta di collisione con il desiderio di libertà di Lia che iniziò ad uscire sempre più spesso, anche da sola, sprezzante delle brutte dicerie che serpeggiavano sul suo conto. Giunse così a decidere di abbandonare il tetto coniugale per andare incontro alla vita da donna libera ed indipendente che aveva sempre sognato. Quando lo comunicò al padre, questi le sputò in faccia. La giovane decise di tagliarsi i capelli e tingerli di scuro.
Alle 18:30 circa del 23 settembre 1983, Lia entrò nel negozio di prodotti sanitari e per l’infanzia Farmababy per fare una telefonata, quando venne colpita da tre proiettili sparati da due malviventi che, dopo aver chiesto al titolare di farsi consegnare l’incasso, prima di scappare, ferirono gravemente la giovane. Lia morì verso le 22:20 nell’Ospedale Civico di Palermo. Le dichiarazioni dei due testimoni, Giovanni Lo Monaco e Rosalia Sciortino, titolari dell’esercizio commerciale, fin da subito hanno fatto vistosamente vacillare l’alibi della rapina, perchè non conferiva alcun senso alla necessità dei malviventi di attentare alla vita della donna, malgrado gli fossero stati consegnati i soldi.
Nonostante i sospetti che la rapina fosse stata simulata, il ritrovamento del corpo di Simone Di Trapani, amico e lontano cugino di Lia, il giorno successivo, portarono le indagini a seguire un nuovo corso. La notizia della relazione di Lia con Simone, proveniente da una fonte della polizia, avallò l’ipotesi che la finta rapina fosse stata organizzata dal marito per vendicarsi del tradimento.
La morte di Simone Di Trapani venne fatta passare come gesto disperato del ragazzo, incapace di accettare la morte di Lia, che decise allora di lanciarsi dal balcone di casa.
Le indagini non portarono a nessuna identificazione dei responsabili, venne così ordinato dal Giudice Istruttore con sentenza di non doversi a procedere. La riapertura delle indagini nel 2002 furono possibili grazie alle dichiarazioni rese da diversi collaboratori di giustizia. A seguito delle dichiarazioni dei teste, Antonino Pipitone sarebbe risultato il mandante dell’uccisione della figlia attraverso l’organizzazione della finta rapina, per punirla in quanto colpevole di aver offeso, intrattenendo una relazione extraconiugale o quantomeno per le voci che ne seguirono, il suo onore.
Il beneplacito del padre alla condanna della figlia giustificherebbero anche la mancanza di intervento da parte dell’organizzazione mafiosa per la ricerca dei responsabili, procedura seguita di regola in casi simili. Tuttavia, Pipitone venne assolto, in quanto quelle raccolte furono dichiarazioni de relato, ossia provenienti da chi non effettivamente legati ai fatti, ma a conoscenza delle stesse tramite voci.
Un dato importante emerse nella sentenza, ossia la differente tempistica intercorrente tra il rapporto con Di Trapani, fatto risalire a quando Lia era in attesa del suo primo figlio, e la morte avvenuta 4 anni dopo.
Per la riapertura del caso, fondamentali furono la pubblicazione del libro “Se muoio, sopravvivimi” scritto dal figlio di Lia, Alessio Cordaro insieme al giornalista Salvo Palazzolo. L’omicidio era stata una grande messinscena e Di Trapani era stato buttato giù dal balcone dagli stessi assassini di Lia, Vincenzo e Angelo Galatolo, dopo averlo costretto a scrivere una lettera che riportava la seguente frase: “Mi suicido per amore“.
Il 17 luglio 2018 la sentenza del Gup Maria Cristina Sala condannò Nino Madonia in quanto mandante dell’omicidio e Vincenzo Galatolo esecutore materiale, alla pena di anni 30 di reclusione. Antonino Pipitone era nel frattempo morto nel 2010.