Ponticelli vive uno dei momenti storici più concitati ed incerti sul fronte camorristico.
Sullo sfondo, l’eterna faida: quella che si è delineata tra le strade del quartiere all’indomani del pentimento dei Sarno per colmare il vuoto di potere scaturito dalla fine di un era camorristica lunga all’incirca trent’anni.
Su un versante, “i reduci”, i superstiti di quel lungo valzer di pentimenti ed arresti, sull’altro un clan nato dal nulla e andato incontro ad una rapida ascesa, sotto la sagace guida di un giovane cresciuto a braccetto con i rampolli della famiglia Sarno: Marco De Micco detto “Bodo”. Il clan fondato da quest’ultimo è riuscito ad avere la meglio sui D’Amico del Rione Conocal e sui De Luca Bossa, le due famiglie d’onore più datate del quartiere. Una supremazia ottenuta a suon di omicidi eclatanti: quello della donna-boss Annunziata D’Amico, sorella dei fratelli Antonio e Giuseppe, che ha ereditato la leadership del clan di famiglia all’indomani del loro arresto, ma anche quelli di Salvatore Solla, fedelissimo dei De Luca Bossa e dei giovani Gennaro Castaldi – contiguo al clan D’Amico – e di Antonio Minichini, figlio della lady-camorra Anna De Luca Bossa e del boss Ciro Minichini detto “Cirillino”, braccio destro di Antonio De Luca Bossa. Una supremazia rilanciata, appena un anno fa, dai De Micco mettendo la firma su un altro omicidio eccellente: quello di Carmine D’Onofiro, il 23enne figlio naturale di Giuseppe De Luca Bossa, assassinato lo scorso ottobre, davanti agli occhi attoniti della fidanzata al nono mese di gravidanza.
Il clan D’Amico è stato sensibilmente rimaneggiato dalla stangata inflitta dal blitz che nel 2016 ha fatto scattare le manette per circa 100 affiliati, un’operazione che ha decapitato il clan che, però, di recente, forte dell’anelito di vendetta professato dagli eredi, i giovani figli dei “fraulella” che con crescente insistenza sui social network annunciano il ritorno alla ribalta.
Tutt’altra storia, invece, quella che si registra sul fronte dei De Luca Bossa, il clan più datato del quartiere. Fondato da Antonio De Luca Bossa all’alba degli anni 2000, quando il 25 aprile del 1998 ha annunciato “la scissione col botto” dal clan Sarno, mettendo la firma sull’attentato con autobomba che aveva ordito per uccidere il boss Vincenzo Sarno e che invece costò la vita a Luigi Amitrano, il giovane nipote ed autista dei Sarno. Da quel giorno, per alimentare il sogno di gloria di Tonino ‘o sicco – questo il soprannome di Antonio De Luca Bossa, per via della sua corporatura esile – di conquistare la leadership camorristica di Ponticelli, dozzine di giovani vite sono state gettate in pasto alle feroci dinamiche della camorra, in primis, quelle dei ragazzi nelle cui vene scorre il sangue dei De Luca Bossa.
Per inseguire la chimera di quell’agognata vendetta contro i De Micco, gli acerrimi nemici che non solo hanno assassinato membri della famiglia ed elementi di spicco del clan, ma che hanno anche assicurato anni bui, pregni di umiliazioni e vessazioni ai De Luca Bossa, la cosca del Lotto O ha reclutato dozzine di giovani estranei alle dinamiche malavitose, ma soggiogati dal falso mito della camorra per alimentare le logiche di quell’illogica faida: Giovanni Rinaldi detto “Ivan” e Giovanni Mignano, giusto per citarne due, giovani estranei alle dinamiche malavitose, seppure cresciuti in contesti difficili, che non hanno saputo sottrarsi al fascinoso richiamo lanciato dagli eredi di Tonino ‘o sicco, Umberto ed Emmanuel, anche loro finiti dietro le sbarre per rilanciare il nome, la credibilità e soprattutto “l’onore” del clan di famiglia.
Prima di loro, incontro al quel destino tanto scontato quanto prevedibile, ci è andato Michele Minichini, “la tigre” del clan De Luca Bossa, il fratellastro di Antonio Minichini. Michele era un giovane che malgrado fosse il figlio di un uomo d’onore dell’area est di Napoli, aveva un lavoro umile e modesto, e conduceva una vita normale, dopo l’assassinio del fratellastro si è repentinamente tramutato nella “tigre” chiamata ad azzannare la brama di vendetta della famiglia-clan alla quale appartiene, per riscattare “l’onore” della famiglia-clan alla quale appartiene. All’alba dei trent’anni è finito in carcere per non uscirvi mai più, in quanto condannato all’ergastolo per i brutali omicidi compiuti per perseguire l’agognata vendetta contro gli acerrimi nemici, senza riuscire a perseguirla, però.
‘ O tigre è stato condannato al carcere a vita senza vendicare la morte del fratellastro.
Ciononostante, nessuno dei suoi parenti è riuscito a far suo il monito, l’insegnamento che la giustizia divina e terrena hanno voluto impartire, a tutti loro, attraverso quel “fine pena mai”.
L’onore, la vendetta, seguitano ad animare le gesta dei membri della famiglia De Luca Bossa tutt’oggi.
Malgrado la lunga scia di ergastoli, parenti detenuti, parenti morti uccisi.
I De Luca Bossa seguitano ad alimentare l’odio, i sentimenti avversi, il compulsivo ed irrazionale desiderio di ripagare l’affronto subìto infliggendo ai rivali il torto subìto, come se uccidere i figli di Luigi, Salvatore o Marco De Micco possa servire a far tornare in vita Antonio Minichini o Carmine D’Onofrio.
L’unico rischio palpabile che s’intravede tra le sanguinarie crepe di quest’illogica ed eterna faida è quello che a finire sopraffatta dalle logiche camorristiche sia l’ennesima vita innocente. Una vita che si trovava a passare di lì per caso o – come erroneamente si dice in questi casi – si trovava nel posto sbagliato, al momento sbagliato.
Come accadde nel 2016, quando i Minichini-De Luca Bossa entrarono in azione per uccidere un boss ed assassinarono anche un ragazzo di 19 anni, Ciro Colonna, un giovane che aveva la stessa età di Antonio Minichini e che morì trucidato dagli spari della camorra solo perchè si trovava all’esterno del circolo ricreativo di proprietà di Umberto De Luca Bossa, il figlio di Tonino ‘o sicco. Ciro era lì per ammazzare la noia che anima gli afosi pomeriggi estivi dei rioni come il Lotto O e non meritava di morire ammazzato dagli spari della camorra.
Come accadde nel 2016, quando i clan alleati di Napoli est – dei quali i Minichini- De Luca Bossa erano un perno portante – “per punire” i Sarno passati dalla parte dello Stato per le condanne inflitte agli autori della strage del bar Sayonara, uccisero Mario Volpicelli, cognato dei Sarno, ma anche lo zio di Gennaro Volpicelli, stimato essere uno degli esecutori materiali dell’omicidio di Antonio Minichini. Mario Volpicelli lavorava come commesso in una merceria, stringeva ancora le buste della spesa tra le mani, quando sulla strada che lo riconduceva verso casa, al termine dell’ennesima, sfiancante giornata di lavoro, gli furono indirizzati due colpi di pistola alla testa. Era il 30 gennaio, la viglia di “San Ciro”: questo fu il barbaro modo scelto dai clan alleati per rovinare la festa a Ciro Sarno, ex boss di Ponticelli che con le sue dichiarazioni ha inguaiato gli uomini d’onore di Napoli est che scelsero di non pentirsi per seguitare ad assicurare fedeltà al codice d’onore della malavita. Questo fu il barbaro modo dei clan alleati di augurare “buon onomastico” a Ciro Minichini, padre di Antonio, ma anche di Michele, braccio armato del sodalizio camorristico in cui convergevano le famiglie d’onore di Napoli est.
E’ accaduto già tante, troppe altre volte, nella storia di questa città, che ad avere la peggio sono stati giovani, giovanissimi che hanno perso la vita perchè soggiogati dal falso mito della camorra.
E quando un giovane, contiguo alla malavita o meno, muore ammazzato, perdiamo tutti. Perdono le istituzioni, la società civile, la politica, la chiesa, il mondo associazionistico, la scuola. Perdono tutti quelli che potevano fare qualcosa per evitare che l’ennesima giovane vita andasse incontro ad una morte violenta. Più di tutti, però, perdono i camorristi, perchè dimostrano che le vite dei loro figli per loro non valgono niente, se per loro conta di più l’onore.