Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo: tre nomi, tre storie, tre vite, legate a filo doppio a quelle di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, le due bambine vittime di quello che fu ribattezzato dai media come “il massacro di Ponticelli”.
Le due piccole, di 7 e 11 anni, furono rapite, seviziate, uccise, i loro corpincini furono dati alle fiamme, a pochi chilometri di distanza dal Rione Incis, il luogo dove vivevano Barbara e Nunzia, ma anche il rione che erano soliti frequentare i tre ragazzi di età compresa tra i 19 e i 21 anni, accusati di essere gli autori di quel brutale duplice omicidio.
I tre giovani sono stati condannati all’ergastolo, malgrado a loro carico non vi siano prove schiaccianti, ma solo le accuse di un “supertestimone”. Nel corso degli ormai 40 anni trascorsi, non hanno mai smesso di lottare per provare la loro estraneità ai fatti. Della loro innocenza ne era fortemente convinto Ferdinando Imposimato, il pm che prima di ogni altro si è battuto per fare giustizia, nel rispetto della vita di tre giovani, ma anche della morte di due bambine. Una battaglia ereditata dalla criminologa Luisa D’Aniello che all’indomani della morte di Imposimato, il suo mentore, si è fatta carico di quell’impegno oneroso e, in concerto con l’investigatore Giacomo Morandi, è riuscita ad acquisire ulteriori e preziosi elementi che in maniera ancor più inequivocabile, provano l’estraneità ai fatti dei tre ragazzi. Una fitta collezione di prove, frutto del meticoloso ed estenuante lavoro condotto per decenni, e che vanno ad aggiungersi a quelle che da tempo immemore giacciono in un faldone che rivendica giustizia per tre ragazzi, costretti a diventare uomini in carcere, perché ingiustamente accusati del più agghiacciante dei reati.
All’alba del 40esimo anniversario dell’assassinio di Barbara e Nunzia, nei giorni scorsi, la commissione parlamentare antimafia si è espressa a favore della revisione del processo.
Come e perché il caso del “massacro di Ponticelli” è approdato alla commissione parlamentare antimafia?
Seppure il delitto sia maturato in circostanze e contesti che esulano completamente dallo scenario camorristico, il quadro accusatorio a carico dei tre sarebbe stato montato ad arte da un pentito: Mario Incarnato, ex referente della NCO di Cutolo e originario di Ponticelli. Tutto lascia dedurre che fu lui ad indottrinare Carmine Mastrillo, il fratello di un’amichetta di Barbara e Nunzia, il quale inizialmente dichiarò di non essere in possesso di informazioni circa l’assassinio delle bambine, ma “in un secondo momento, dietro le pressioni degli inquirenti e solo dopo essere stato avvicinato nella caserma Pastrengo di Napoli dal pentito Mario Incarnato, offrì una circostanziata, seppur illogica, ricostruzione dei fatti”.
Un ruolo determinante nel conferire nuovi elementi a discolpa dei tre ragazzi lo giocano altri collaboratori di giustizia, Delli Paoli, Starace, Galasso, tra i quali spicca la figura del boss Ciro Sarno. I tre ragazzi, infatti, vennero condotti nel carcere di Spoleto, lo stesso istituto penitenziario in cui era detenuto anche Sarno che all’epoca dei fatti era il boss di Ponticelli, il quale volle incontrarli per rassicurarli ed offrirgli il suo sostegno, in quanto sicuro della loro innocenza. Ciro Sarno disponeva di alcune informazioni importanti che provavano l’innocenza dei tre e che sono emerse di recente.
Forte sostenitrice dell’innocenza dei tre ragazzi è anche la deputata Stefania Ascari che ha definito “una delle storie più cruente che il nostro Paese ricordi”, oltre che “uno dei peggiori errori giudiziari della nostra storia recente”.
“Sarebbe il caso di proseguire con le audizioni – si legge nella relazione dell’onorevole Stefania Ascari e dei consulenti designati da quest’ultima, la criminologa D’Aniello e l’investigatore Morandi – al fine di approfondire il legame che la camorra e in particolare i pentiti hanno avuto in questo caso”. E per capire “se sono state esercitate pressioni al fine di nascondere qualcosa o coprire il vero colpevole di questo efferato delitto”.
Il ruolo determinante che gli ex interpreti della camorra, oggi collaboratori di giustizia, possono ricoprire per far sì che trionfi la verità e quindi la reale giustizia è emerso proprio nel corso delle audizioni che hanno poi concorso a portare la commissione antimafia a votare all’unanimità affinché si possa giungere a riconoscere che si sia trattato effettivamente di un errore giudiziario o suggerire una revisione del processo.
La Rocca, Imperante e Schiavo hanno ammesso di aver beneficiato della protezione e della solidarietà degli altri reclusi durante l’intero periodo di detenzione, fatto anomalo per tre soggetti accusati di aver abusato sessualmente e ucciso due bambine, in quanto il codice d’onore della camorra prevede la condanna a morte per gli autori di reati affini.
Una triste vicenda ambientata a Ponticelli nell’ambito della quale anche Ciro Sarno, il boss più autorevole della storia camorristica del quartiere, può concorrere a ripristinare la verità, in veste di collaboratore di giustizia.