Da diverse settimane, a Ponticelli, con crescente insistenza, circola un rumors che annuncia l’imminente scarcerazione del boss Marco De Micco.
Il boss reggente del clan dei “Bodo” è stato fermato lo scorso aprile, insieme ad altri affiliati all’omonimo clan, per l’omicidio del 23enne Carmine D’Onofrio, figlio naturale di Giuseppe De Luca Bossa.
Secondo le notizie che si sono susseguite negli ultimi tempi tra le strade e i rioni sotto il controllo dei De Micco e poi nell’intero quartiere, un’imminente udienza dibattimentale, fissata a settembre, sarebbe destinata a scardinare le accuse che pendono sul capo del boss, in primis le intercettazioni. Il ritorno di Marco De Micco a Ponticelli viene annunciato come imminente, tant’è vero che in uno dei fortini del clan, da diverse settimane, operai e muratori lavorano a tambur battente per costruire una nuova casa al boss. Con l’abitazione di via Piscettaro “contaminata” dalle microspie, il boss avrebbe dato ordine di costruire una nuova, lussuriosa abitazione dove, una volta tornato in libertà, andrà a vivere insieme alla sua famiglia.
In realtà, si tratta di una clamorosa bufala, poichè i fatti raccontano che le cose stanno in tutt’altro modo.
Le indagini sono ancora in corso, nessun dibattimento imminente si scruta all’orizzonte. Così come precisato dall’avvocato difensore di Marco De Micco, Stefano Sorrentino, seppure sia vero che le intercettazioni integrali che incastrano il boss siano al suo vaglio, l’unico elemento che potrebbe configurare uno scenario utile ad alleggerirne la posizione è riconducibile all’esito dell’interrogatorio di Giovanni Mignano. Il giovane, che secondo quanto emerso dalle intercettazioni che hanno portato al fermo di Marco De Micco ed altri quattro giovani contigui all’omonimo clan, sarebbe stato sequestrato, malmenato ed interrogato, proprio in casa del boss, all’indomani dell’esplosione dell’ordigno a lui indirizzato.
L’ordigno esploso la sera del 29 settembre nel cortile dell’abitazione del boss Marco De Micco aveva divelto il cancello della sua abitazione e danneggiato alcune auto in sosta, oltre ad aver “ufficializzato” la leadership camorristica di quest’ultimo – un fatto che ha concorso e non poco ad indispettirlo – e soprattutto aveva messo a repentaglio la vita dei suoi figli e dei suoi nipoti, in quanto i bambini sono soliti intrattenersi a giocare proprio lì, nel cortile di casa.
Motivo per il quale, il boss avrebbe dato il via ad una serrata caccia agli artefici del raid e quando gli sarebbe stato indicato il figlio di Giuseppe Mignano soprannominato Peppe scè, scè, fedelissimo di Tonino ‘o sicco, avrebbe dato ordine di prelevarlo per sottoporlo al serrato interrogatorio nell’ambito del quale, il giovane avrebbe fatto il nome del suo complice: Carmine. Indicando solo il nome di battesimo del figlio naturale di Peppino De Luca Bossa.
Così come tutti i partecipanti all’interrogatorio si rivolgono al soggetto torchiato chiamandolo con il nome di battesimo, “Gianni”, motivo per il quale sia Mignano che i De Micco contestano la veridicità dei fatti. Tuttavia, uno degli elementi che ha consentito agli inquirenti di identificare Mignano è una frase indirizzatagli da Marco De Micco: “quel porco del padre, mi sembra”. Chiaro il riferimento al tradimento di Mignano al clan Sarno per supportare la scalata la potere di Tonino ‘o sicco, alias Antonio De Luca Bossa, quando decise di fondare il suo clan autonomo, dissociandosi dai boss del rione De Gasperi. Un tradimento che Peppe scè scè pagò con la vita, assassinato dai sicari dei Sarno che lo stanarono nel suo appartamento, nel rione Lotto O, fortino del clan De Luca Bossa, e per giunta gettarono sul cadavere una mazzetta di banconote, in segno di disprezzo.
Non è un segreto che da ragazzo, Marco De Micco, era in ottimi rapporti con i figli dei Sarno. Tantissime le foto che immortalano i fratelli De Micco in compagnia degli eredi dei boss di Ponticelli durante feste e cerimonie. Un rapporto d’amicizia che è sopravvissuto anche al pentimento delle figure simbolo della cosca che per circa 30 anni ha dominato la scena camorristica dell’ala orientale partenopea e non solo, tant’è vero che i figli dei Sarno, anche in un passato recente, sono stati avvistati mentre si recavano a casa De Micco, qualche anno fa, perfino per festeggiare un capodanno.
Tanto basta a giustificare le collera e il rancore che hanno indotto Marco De Micco ad indirizzare quella frase al figlio di Peppe scè, sce, “un traditore” dei Sarno che tra l’altro aveva anche partecipato all’attentato ordito per uccidere il boss Vincenzo Sarno e che invece costò la vita al giovane Luigi Amitrano, nipote ed autista del boss.
Così come appaiono inequivocabili le intenzioni di Marco De Micco, dopo aver appreso dal giovane interrogato l’identità del suo complice. Tant’è vero che ordina a due dei suoi gregari di andare “sotto all’arco”. Così viene denominata nel gergo popolare la zona di San Rocco dove vive la madre di Carmine D’Onofrio. Quando i due tornano e gli spiegano che il giovane sembra sparito nel nulla dalla sera del raid, il boss sfoga tutta la sua collera impartendo una serie di ordini precisi su come assassinarlo e che trovano riscontro nella modalità d’esecuzione dell’agguato in cui il 23enne ha perso la vita pochi giorni dopo, la sera del 7 ottobre.
All’indomani del fermo di Marco De Micco e degli altri affiliati al clan accusati di essere responsabili, a vario titolo, dell’omicidio di Carmine D’Onofrio, Giovanni Mignano, dalla cella del carcere in cui è recluso insieme ad Umberto De Luca Bossa, cugino di Carmine, urla a gran voce la sua estraneità ai fatti. Sostiene di non essere lui quel Gianni che a suon di minacce e percosse avrebbe condannato a morte il figlio di Peppino De Luca Bossa, fornendo ai rivali il suo nome, identificandolo come l’artefice del rais indirizzato a Marco De Micco pochi giorni prima.
Attraverso una lettera diramata agli organi di stampa, Giovanni Mignano chiede di essere sottoposto a perizia fonica, sicuro del fatto che in questo modo verrà appurato che la sua voce non corrisponde a quella del giovane sequestrato, picchiato ed interrogato dai De Micco.
Per questo motivo, l’unico elemento certo che potrebbe far vacillare le accuse a carico di Marco De Micco e degli altri affiliati, coinvolti nelle indagini, appare proprio l’interrogatorio di Mignano. Laddove i riscontri dovessero dare ragione al figlio di Peppe scè, scè per i De Micco si andrebbe a configurare uno scenario ben più incoraggiante rispetto a quello attuale.
Paradossalmente, le sorti dei “Bodo” dipendono da una perizia a carico di un affiliato al clan De Luca Bossa che dal suo canto ha tutto l’interesse a sperare che venga provata la sua estraneità ai fatti per sventare un’ipotetica da parte dei vertici del clan del Lotto O che difficilmente potrebbero perdonargli di aver condannato al morte un membro della famiglia De Luca Bossa, quella stessa famiglia che si è impegnato a servire ed onorare, quando si è affiliato, proprio come ha fatto suo padre che ha finanche pagato con la vita l’atto di fedeltà verso Tonino ‘o sicco.
Tuttavia, di recente, si è verificato un evento imprevisto che potrebbe stroncare definitivamente le speranze dei “Bodo”: il pentimento di Antonio Pipolo, giovane recluta del clan De Micco, ben addentrato nelle trame camorristiche. Nei rioni in odore di camorra si preannuncia che Pipolo abbia perfino ricoperto un ruolo nell’ambito dell’omicidio D’Onofrio e proprio per questo motivo le sue rivelazioni potrebbero rivelarsi risolutive per sciogliere i dubbi e chiarire le ombre che ancora aleggiano sul delitto, andando a rafforzare il quadro accusatorio.
Questo è il vero rumors che, se confermato dai riscontri della magistratura, sembra realmente destinato a decidere le sorti del boss Marco De Micco e dei suoi fedelissimi.