Un retroscena macabro, uno dei tanti che contornano le trame camorristiche che si avvicendano nel quartiere napoletano di Ponticelli e che risale agli anni animati dalla faida tra i De Micco e le vecchie famiglie d’onore di Napoli est che confluirono in un unico cartello camorristico per perseguire un duplice intento: scalzare i Mazzarella da San Giovanni a Teduccio e i De Micco da Ponticelli.
Il cartello camorristico era costituito dai Minichini, i De Luca Bossa e i Casella di Ponticelli, “le pazzignane” del Rione De Gasperi di Ponticelli, gli Aprea di Barra e i Rinaldi di San Giovanni a Teduccio.
La faida divampò rapidamente, tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2018, facendo registrare raid, “stese” ed azioni violente pressoché all’ordine del giorno. L’evento che diede il via alle ostilità fu il blitz che fece scattare le manette per 23 figure di spicco del clan De Micco e che concorse ad indebolire sensibilmente la cosca che fino a quel momento era riuscita a preservare il controllo dei traffici illeciti. Una leadership consacrata a suon di omicidi eccellenti, come quello della donna-boss del Rione Conocal Annunziata D’Amico e del ras del Lotto O Salvatore Solla.
Poche ore dopo il blitz che decapitò il clan, fu la “Pazzignana” Luisa De Stefano ad ufficializzare l’incipit delle ostilità, presentandosi nel garage della famiglia De Micco, adibito a “reception” del clan, per palesare la volontà di cessare di versare nelle loro casse la tangente per le piazze di spaccio gestite da lei e dai suoi familiari. Un diniego che risuonò come un perentorio atto di ribellione. Una scintilla dalla quale divampò un incendio che si è protratto per mesi, fino a quando i reduci del clan De Micco non deposero le armi riconoscendo la supremazia dei clan alleati.
Tuttavia, fino al giorno del blitz, i clan alleati si guardarono bene dal lanciare il guanto di sfida ai De Micco contestandone l’egemonia, in quanto consapevoli della forza militare e non solo del clan dei “Bodo”, questo il soprannome dei De Micco. Un nomignolo che è diventato il vero e proprio brand del clan, oltre che il simbolo distintivo della fedeltà degli affiliati che erano soliti tatuarsi sulla pelle quell’appellativo, diventato ben presto sinonimo di camorra.
Una moda, quella di tatuarsi il nomignolo del clan d’appartenenza, che prese il sopravvento nell’ambito della faida tra i “Bodo” e i “fraulella”, ovvero gli affiliati al clan D’Amico. Una moda dilagante tra i giovani dei rioni del quartiere che ha coinvolto anche ragazzi estranei alle dinamiche malavitose che decisero di tatuarsi comunque uno dei due nomignoli. Un battesimo d’onore necessario per dimostrare fedeltà eterna ad una cosca piuttosto che all’altra.
Consapevoli della forte carica simbolica ed ideologica ricoperta da quei tatuaggi, gli affiliati ai clan alleati chiesero agli ex De Micco passati sotto le loro direttive di compiere un gesto estremo, cancellando quel simbolo scalfito sulla pelle per suggellare la precedente affiliazione. Nel periodo in cui maturò la resa dei De Micco e le vecchie famiglie d’onore di Napoli est riuscirono a conquistare il controllo del territorio, si registrò una vera e propria migrazione di reclute, un tempo servili ai “Bodo”, ma repentinamente passate al soldo dei nuovi leader di Ponticelli.
Proprio perché i vertici dell’alleanza volevano essere sicuri di potersi fidare di affiliati capaci di un cambio di casacca così immediato, gli ordinarono la rimozione dei tatuaggi-simbolo dell’affiliazione ai “Bodo”.
Tra gli isolati fatiscenti del Rione De Gasperi si racconta che gli affiliati che disobbedirono all’ordine, non provvedendo autonomamente a rimuovere il tatuaggio, subirono una pratica brutale: gli venne bruciato con l’acido. In quegli anni destò molto scalpore il caso di una giovanissima recluta, poco più che ventenne. Il giovane fu bloccato con la forza e costretto a subire la rimozione violenta di quel segno che doveva essere cancellato, come una pena da espiare. Quel tatuaggio, per l’appunto, gli venne bruciato con l’acido.