Cicciano, 26 gennaio 1996 – Salvatore Manzi, classe 1966, è un 30enne maresciallo della Marina Militare quando viene giustiziato dai sicari della camorra.
Originario di Quindici, piccolo comune della provincia di Avellino, situato nel Vallo di Lauro, al confine con l’area nolana e l’agro nocerino sarnese. Dopo aver trascorso nella sua terra natia infanzia e giovinezza, appena raggiunge la maggiore età si arruola in Marina.
Un giovane serio e con la testa sulle spalle che coltiva il sogno di una vita normale. Conosce Flora, una ragazza di cui si innamora che presto diventerà sua moglie e che gli darà la gioia immensa di diventare papà di un bambino, Mario. La sua carriera nella Marina militare è rapida e ricca di gratificazioni, ben presto diventa sottufficiale.
Negli anni diventa capo di terza classe negli uffici del Ministero della Difesa e la sua vita si divide tra Nola, dove vive con la sua famiglia, e Roma, quartiere Eur, sede della Direzione generale delle Telecomunicazioni, dove lavora.
Salvatore conduce una vita da pendolare, tra la capitale e il paese in cui è nato e cresciuto e dove desidera che anche suo figlio cresca.
In quegli anni a Quindici impazza una sanguinaria faida tra il boss Salvatore Cava e i nemici Graziano. 40 in 26 anni: questo il bilancio dell’alacre guerra di camorra che si combatte da circa un trentennio. Salvatore è lontano dai giochi criminali, totalmente estraneo a quel contesto e da quelle dinamiche, ma essendo originario di quel piccolo paesino, è parente alla larga del boss: sua mamma infatti, Anna Maria Cava, porta quello stesso cognome. Eppure né lei né Salvatore né tutta la loro famiglia ha nessun tipo di contatti con il boss. Tuttavia, tanto basta alla camorra per condannare a morte Salvatore.
Il 26 gennaio del 1996, come di consueto faceva il venerdì, Salvatore rientra a Quindici per trascorrere il fine settimana con la sua famiglia. Prima di rincasare, si ferma a Cicciano, comune limitrofo del nolano, per concedersi una partita di calcetto tra colleghi.
Due persone, incappucciate e armate, fanno irruzione nell’impianto sportivo, interrompono la partita e fanno stendere a terra tutti i giocatori, simulando una rapina. Poi però si avvicinano a Salvatore, gli sollevano il mento per esser certi della sua identità e gli sparano contro tre colpi di fucile a canne mozze, a distanza ravvicinata.
Salvatore muore così, giustiziato come un boss, sotto gli occhi attoniti e increduli degli amici, mentre i killer scappano senza lasciare traccia.
Nella notte dell’omicidio l’auto del commando e l’arma del delitto vengono date alle fiamme per eliminare ogni traccia. Verranno ritrovate in un viottolo di campagna.
Secondo i Carabinieri e il PM che segue il caso, Paolo Itri, Salvatore è l’ultimo innocente sacrificato a causa dell’odio delle due famiglie. I killer della faida hanno infatti già colpito una coppia di estranei nell’ottobre del 1991: per errore, uccisero Nunziante Scibelli e ferirono sua moglie Francesca Cava, solo omonima. E non si fermarono neanche davanti a un ragazzo con disabilità che era il figlio del boss Salvatore Cava. Tutte le vittime innocenti che allungano quella lugubre scia di sangue sono accumunati dello stesso, vistoso dettaglio: quel cognome.
Nel 2009 il Ministero dell’Interno decreta che Salvatore Manzi è vittima innocente di criminalità organizzata.