L’omicidio del giovane Carmine D’Onofrio ha fatto ripiombare Ponticelli in un inquietante silenzio. Freddato da un killer solitario nei pressi della sua abitazione, in via Luigi Crisconio, lo scorso 6 ottobre, il 23enne figlio illegittimo di Giuseppe De Luca Bossa, fratello del killer ergastolano Tonino ‘o sicco, è stato vittima di una vera e propria esecuzione.
Un giovane cresciuto in un contesto distinto e distante dalla malavita, ignaro dell’identità del suo vero padre per 20 anni. Una verità della quale è venuto a conoscenza solo qualche anno fa, nella fattispecie, quando Giuseppe De Luca Bossa è tornato a Ponticelli per ricoprire il ruolo di reggente del clan di famiglia che in quel momento storico aveva conquistato la leadership camorristica del quartiere. In questo contesto matura la presa di coscienza di un ragazzo qualunque, costretto a fare i conti con una verità insospettabile: è il figlio dell’attuale boss del quartiere in cui vive. Carmine scopre così che nelle sue vene scorre il sangue dei De Luca Bossa. Una rivelazione che turba e non poco il giovane che in preda ad una vera e propria crisi d’identità, inizia ad allontanarsi dagli amici di sempre. Si discosta dalla comunità parrocchiale che aveva sempre frequentato e si avvicina ai membri di quella famiglia alla quale ha scoperto di appartenere. Trascorre del tempo con il padre, ma anche con i cugini, i figli di Tonino ‘o sicco.
Nessuno, se non gli inquirenti, potrà mai stabilire con assoluta certezza fino a che punto quella scoperta abbia spinto Carmine a cambiare vita e se la sua morte sia strettamente correlata alle logiche dettate dalla faida in corso. Tuttavia, fin dai giorni successivi all’agguato in cui il giovane ha perso la vita, tra le strade di Ponticelli serpeggia con insistenza una ricostruzione dei fatti ben precisa, secondo la quale Carmine sarebbe l’autore del raid indirizzato al clan De Micco.
Insieme ad un altro giovane, Carmine D’Onofrio avrebbe piazzato l’ordigno artigianale, esploso in via Luigi Piscettaro, nei pressi dell’abitazione del boss Marco De Micco, intorno alle 21,20 dello scorso 28 settembre. Un’esplosione che non ha arrecato alcun danno al ras dei “Bodo”, ma che ha ferito in maniera lieve una donna e il figlio 14enne, raggiunti dai frammenti di un vetro.
Uno “sgarro” che il giovane avrebbe pagato con la vita.
Tuttavia, persone vicine a Carmine, assicurano che la sera in cui esplose la bomba, il giovane fosse a casa del nonno a guardare una partita di calcio. Un alibi al vaglio degli inquirenti, fiduciosi del contributo che in tal senso potrà essere fornito dal telefono cellulare del giovane.
Ad indicare Carmine D’Onofrio come uno degli attentatori, consegnando di fatto la sua testa ai De Micco, sarebbe stato proprio l’amico che lo avrebbe aiutato a piazzare l’ordigno esploso lo scorso 28 settembre.
Il giovane, spaventato dalla “caccia all’uomo” avviata all’indomani del raid per punire i responsabili, avrebbe quindi deciso di consegnarsi spontaneamente all’attuale boss di Ponticelli per negoziare la sua vita in cambio di quella di Carmine.
Un’informazione preziosa che avrebbe consentito ai De Micco di pianificare l’agguato nell’arco di pochi giorni, forti dell’appoggio fornito da quel giovane, pronto a tutto pur di sopravvivere.
Un agguato studiato nei minimi dettagli e che doveva compiersi proprio lì, a San Rocco. Nel luogo in cui Carmine ha sempre vissuto e dove tutti lo conoscevano, ma anche una delle strade-simbolo dell’egemonia dei De Micco. Un’esecuzione in piena regola che doveva avvenire sotto gli occhi di tutti, perché a tutti doveva essere chiaro quale sia il destino che spetta a coloro che osano contestare la supremazia dei De Micco.
Uccidere Carmine, il figlio di Giuseppe De Luca Bossa, significava soprattutto infliggere un durissimo colpo al clan del Lotto. Un colpo destinato a chiudere la disputa in corso per il controllo del territorio, lasciando intendere ai De Luca Bossa, sempre più rimaneggiati ed isolati, che non gli resta da fare altro che deporre le armi e riconoscere, per l’ennesima volta, il predominio dei “Bodo”.
Un omicidio eclatante che ha consegnato ai De Luca Bossa un’altra giovane vittima da vendicare dopo Antonio Minichini, figlio di Anna De Luca Bossa e del boss Ciro Minichini, ucciso a 19 anni dai sicari del clan De Micco, ancora e sempre per assecondare le logiche di una faida infinita.
Eppure, la storia di Carmine D’Onofrio, ucciso a 23 anni sotto gli occhi attoniti della compagna in procinto di partorire, è ricca sì di misteri e contraddizioni, ma anche di amarezza e suggestione.
Lo scorso 16 ottobre, nelle stesse ore in cui Carmine veniva indicato come l’esecutore materiale del raid indirizzato ai De Micco, la compagna ha dato alla luce quel bambino che avrebbe dovuto ereditare il nome del nonno Giuseppe e che, invece, rappresenta la rinascita di quel padre, morto senza mai conoscere suo figlio, perché ucciso dalla camorra all’incirca una settimana prima di quel lieto evento.
Carmine D’Onofrio è diventato così un nome che evoca numerose e contrastanti emozioni.
L’auspicio degli abitanti del quartiere, stanchi di vivere in balia delle logiche della camorra, è che al nome di Carmine D’Onofrio possa essere associata una significativa inversione di rotta, capace di arginare quel fiume di sangue che troppe volte ha sporcato le strade di Ponticelli.