Nel tardo pomeriggio del 7 ottobre del 2020, la camorra ponticellese ufficializzava l’inizio della guerra di camorra ancora in corso, mettendo la firma sul primo agguato.
A finire nel mirino dei killer, il giovane Rodolfo Cardone, vicino al clan De Martino.
Un agguato meticolosamente ricostruito dagli inquirenti, quello maturato il 7 ottobre del 2020, nei pressi del bar Royal a Ponticelli, luogo di ritrovo delle giovani reclute del clan De Martino, anche ribattezzato “XX”.
Dagli esecutori ai mandanti, dal movente alla dinamica dell’agguato: a distanza di un anno, non aleggiano dubbi intorno al primo sussulto di camorra che ha dato ufficialmente il via alle ostilità tra il clan De Martino e il cartello composto dai Minichini-De Luca Bossa-Casella. Un agguato che lo scorso marzo ha fatto scattare le manette per il fratellastro dei Casella, Giuseppe Righetto, e per Nicola Aulisio, nipote dei figli del defunto boss Paglialone.
Seppure numerose frizioni si fossero già verificate nelle settimane precedenti, pur non sfociando in episodi eclatanti, dall’agguato che provocò il ferimento di Cardone, scaturirono una serie di episodi eclatanti, intervallati da momenti di calma apparente, voluti per spegnere i riflettori delle forze dell’ordine e studiare la strategia migliore per colpire i rivali.
Diversi agguati mancati, sventati dalle pistole che s’inceppano sul più bello, a riprova dell’inesperienza e della poca dimestichezza con le armi palesata dai giovani prestati alla malavita, tre agguati in meno di un mese, una pedina fondamentale dello scacchiere della camorra ponticellese che passa dalla parte dello Stato, pur di non pagare con la vita il prezzo necessario per mettere fine alla faida, e soprattutto, la morte di un 28enne e il ferimento di un 23enne, costretto a vivere per il resto dei suoi giorni senza un testicolo e le tre bombe esplose in meno di una settimana che fanno da eco a quella che ha squarciato il silenzio della notte, appena due mesi prima, nel cuore del centro storico del quartiere. Gli arresti eclatanti, su entrambi i fronti, dai De Luca Bossa ai Casella, passando per le giovani reclute del clan De Martino.
Una sequenza confusionaria di eventi che scandiscono le fasi salienti di una faida tra clan che non si limitano a contendersi il controllo dei traffici illeciti: quella in scena a Ponticelli è una guerra generazionale che decreta l’inizio di una nuova era camorristica.
Su un versante, i giovani con piccoli precedenti a carico, inesperti in materia di camorra, che si lasciano guidare dalla “mente pensante” del clan: un mostro a due teste, composto dal killer ergastolano Antonio De Martino, soprannominato “XX” e da sua madre Carmela Ricci detta “donna Lina”. Sono loro ad impartire direttive e tatticismi ai giovani del rione che costituiscono un autentico cordone protettivo intorno a Salvatore De Martino, figlio e fratello minore, l’ultimo superstite della famiglia, l’unico ancora in libertà. Giovani kamikaze mandati a morire per assecondare la livorosa brama di potere di una famiglia che non ha voluto cedere il passo al “nuovo che avanza”, all’indomani della resa del clan De Micco e che si esaltano alimentando un pericoloso e sempre più incontenibile desiderio di emulazione di quella figura iconica, emblema della nuova ideologia camorristica, fatta di tatuaggi e bella vita: “XX”.
Sull’altro versante, i figli dei vecchi uomini d’onore di Ponticelli, incapaci di reggere il peso della responsabilità che gli deriva dal cognome che portano: da Umberto De Luca Bossa, arrestato ad ottobre del 2020, un anno dopo il ritorno in libertà e soprannominato “il boss che non sa sparare” proprio per l’indole inoffensiva manifestata durante i 12 mesi trascorsi a ricoprire il ruolo di capoclan, ai fratelli Casella, figli del temuto boss “Paglialone”, uno che tra le fila dei Sarno aveva saputo conquistare credibilità e rispetto e che quando si è visto costretto dalle circostanze scaturite dal pentimento degli ex boss di Ponticelli a rifondare la sua organizzazione, ha preferito richiamare sotto le sue direttive i nipoti radicati nel rione Luzzatti, consapevole dello scarso spessore criminale dei suoi figli. Forte di una vita trascorsa da figlio illegittimo, Giuseppe Righetto, fratellastro dei Casella, ha cercato di distinguersi imponendo la sua personalità, quasi a voler dimostrare di essere l’unico figlio all’altezza della fama di quel padre che non lo ha riconosciuto. E’ proprio Giuseppe Rigetto, detto Peppe ‘o blob, la figura camorristica più rappresentativa del clan Casella. E’ Peppe ‘o blob a tessere le alleanze e a parlare a nome del clan di famiglia. E’ Peppe ‘o blob a mettere la firma su due dei tre agguati maturati tra settembre ed ottobre del 2020 ed è lui che viene ferito ad una mano, raggiunto da un colpo d’arma da fuoco, a marzo del 2021, in circostanze ancora tutte da chiarire, pochi giorni prima del suo arresto. Con l’uscita di scena di Giuseppe Righetto, i Casella appaiono impauriti e smarriti, soprattutto perchè l’egemonia e la credibilità di quel sodalizio camorristico di cui sono parte integrante, non vacilla solo sotto le minacce degli spari e dei raid dei De Martino. Un pericolo ben più grande incombe, infatti, sui clan di Ponticelli.
Il sussulto più clamoroso e perentorio matura in silenzio, quando a marzo del 2021 viene scarcerato Marco De Micco detto “Bodo”, boss fondatore dell’omonimo clan. Un ritorno in libertà marcato dalla via crucis di amici ed affiliati che si recano presso l’abitazione del ras, finito immediatamente nel mirino dei Minichini-De Luca Bossa che dimostrano di non aver dimenticato i vecchi rancori, dichiarandosi intenzionati a vendicare la morte di Antonio Minichini, figlio di Anna De Luca Bossa – la lady camorra del Lotto O – e del boss Ciro Minichini, nonchè fratellastro del killer Michele Minichini, ucciso dai sicari del clan De Micco. Nei giorni successivi alla scarcerazione del ras, le ronde delle figure di spicco della cosca del Lotto O nei pressi dell’abitazione di De Micco erano tante vistose quanto incessanti.
Marco De Micco ha tuttavia manifestato, fin dagli esordi risalenti all’era post-Sarno, la tempra, il cinismo e la strategica lungimiranza del vero boss, confermando di non aver perso durante la detenzione le sue doti di abile stratega. “Bodo” trascorre diverse settimane in silenzio, presumibilmente imbastendo accordi, strategie e soprattutto richiamando a sè uomini e strumenti per allestire un clan forte e pronto ad irrompere sulla scena, non appena le circostanze sarebbero state propizie e favorevoli alla sua ascesa.
Così doveva essere e così è stato.
Senza troppi affanni e spargimento di sangue, Marco De Micco si è rimpadronito di Ponticelli, godendosi lo spettacolo, durante le battute finali e più concitate della guerra tra i clan alleati e i suoi eredi, dai quali però ha preso le distanze fin da subito, guardandosi bene dall’impicciarsi in una guerra che gli avrebbe portato solo rogne.
Un braccio di ferro lungo un anno, quello tra i De Luca Bossa-Minichini-Casella e i De Martino, vinto clamorosamente da uno spettatore solitario che ha ripristinato gli equilibri, impartendo nuove direttive, limitandosi ad abbandonare gli spalti per scendere in campo quando entrambe le compagini erano troppo sfiancate e rimaneggiate per continuare a scontrarsi.
Non è difficile intuire come e perchè “Bodo” sia riuscito a far valere le sue ragioni. Troppo temuto come avversario per essere contrastato, troppo carismatico come boss per essere scalzato.
L’unico dato certo è che il nuovo assetto geografico impartito dal fondatore del clan De Micco “chiude” i De Luca Bossa nel loro bunker, il Lotto O, isolandoli dal resto del quartiere, oltre che dalla scena camorristica locale. Iniziano così i tempi di magra per le figure di spicco della cosca attualmente detenute che cercano a loro volta di dettare direttive ed imposizioni alle reclute a piede libero per racimolare i soldi utili a garantirgli una carcerazione dignitosa.
In quest’ottica matura il duplice agguato messo a segno lo scorso 11 agosto: un morto e un ferito. Ad avere la peggio è il 45enne Salvatore De Martino, mentre Salvatore Scarpato, 49 anni, resta ferito. Entrambi pregiudicati con precedenti per droga e ritenuti contigui al clan De Luca Bossa. Tutt’altro che casuale il teatro del raid: il Rione De Gasperi di Ponticelli, l’ex bunker dei Sarno, poi diventato fortino del clan delle “pazzignane”, capeggiate da Luisa De Stefano, moglie dell’ergastolano Roberto Schisa, a sua volta condannata al carcere a vita per l’omicidio Colonna-Cepparulo ed attualmente in ostaggio di “Bambola di pezza”, sorella del ras Domenico Amitrano, attualmente detenuto.
Proprio tra i relitti del fortino dei Sarno, Marco De Micco ha iniziato a sgranchirsi le gambe, a suon di “scese” e passeggiate.
A riaprire una partita che sembrava ormai chiusa, ci ha pensato l’ordigno artigianale piazzato nel cuore del quartier generale dei De Micco, lo scorso 28 settembre.
Un affronto inaudito che rischiava di mettere in cattiva luce la credibilità del nuovo leader camorristico di Ponticelli, a meno che non giungesse una risposta immediata e significativa, in grado di ridimensionare le velleità dei rivali.
In barba a questa logica nella notte tra martedì 5 e mercoledì 6 ottobre ha perso la vita il 23enne Carmine D’Onofrio, figlio illegittimo di Giuseppe De Luca Bossa, fratello del boss ergastolano Tonino ‘o sicco. Il giovane incensurato è stato sorpreso dai sicari della camorra mentre rincasava, in compagnia della fidanzata, all’ottavo mese di gravidanza.
Un agguato eclatante che ha fatto ripiombare Ponticelli nella paura e nel silenzio e che lascia presagire che “il peggio deve ancora venire…”