L’11 aprile del 2015, a metà pomeriggio, i killer entrano in azione in via Roria Doria, arteria di via Angelo Camillo De Meis, nei pressi del “Bar Coppola”. Ad avere la peggio è il 47enne Vincenzo Pace, mentre rimane ferito il 38enne Emanuele Cito, reale obiettivo dell’agguato. Pace muore sul posto, raggiunto da quattro proiettili al volto e al torace, mentre Cito, sopravvive miracolosamente all’agguato. Ferito ad una spalla, viene trasportato all’ospedale Villa Betania.
I sicari sono entrati in azione tra la gente, davanti a un bar.
Quando la squadra anticrimine del locale commissariato di polizia giunge sul posto, Pace era già deceduto e il suo corpo esanime viene coperto da un lenzuolo bianco. Gli agenti fanno appena in tempo a mettere in sicurezza la scena del crimine. Sul posto si genera immediatamente un capannello di curiosi, ma anche di amici e soprattutto parenti del deceduto che accorrono in lacrime e urlando, incapaci di credere che Pace sia davvero stato ucciso. Malgrado i precedenti per estorsione e spaccio di sostanze stupefacenti, non era lui il “pezzo da 90” da stanare: questo è chiaro, fin da subito, a tutti, anche agli investigatori del commissariato di Ponticelli e della Squadra Mobile della Questura ai quali vengono affidate le indagini che si concentrano subito sulla figura di Emanuele Cito detto “Pierino”, sopravvissuto miracolosamente all’agguato.
Cito e Pace, due ex Sarno, dopo qualche anno di esilio forzato dalla scena camorristica ponticellese erano tornati alla ribalta insieme a Raffaele Stefanelli, figura di spicco del clan D’Amico del rione Conocal e stavano cercando di riorganizzarsi, gettando le basi per fondare un sodalizio camorristico autonomo, animato dall’intento di scalzare l’egemonia dei De Micco per appropriarsi del controllo del traffico illecito a Ponticelli.
Un duplice agguato destinato ad una figura che ricopriva un ruolo tutt’altro che marginale nello scacchiere della malavita ponticellese e che che matura in un momento storico ben preciso, contestualmente al declino del clan Sarno e nell’ambito della consequenziale faida esplosa tra diversi focolai camorristici per il controllo del territorio.
Una guerra che consacra la supremazia dei De Micco in seguito all’agguato in cui perse la vita la donna-boss Nunzia D’Amico detta la “passilona”, il 10 ottobre del 2015, quindi 6 mesi dopo l’omicidio di Pace.
Un omicidio voluto dai De Micco proprio per stroncare la compagine camorristica che si stava rifondando sui relitti dell’ex clan Sarno e che puntava a minare proprio l’egemonia dei Bodo a Ponticelli.
E’ lo stesso Emanuele Cito ad indicare i De Micco come possibili mandanti dell’omicidio del socio ed amico Vincenzo Pace. Ne era talmente sicuro che dopo l’agguato aveva organizzato la risposta per colpire i “Bodo”, ma fu fermato dalle forze dell’ordine.
Arrestato nel dicembre del 2009 per estorsione aggravata, mentre era in libertà vigilata, Cito prese di mira un cantiere presso il quale si stavano effettuando lavori di ristrutturazione di uno stabile. Dopo insistenti richieste, riuscì ad intascare il denaro: 50 euro, questo il bottino che l’uomo aveva estorto e che aveva ancora in tasca quando è stato tratto in arresto poco dopo, presso l’abitazione della madre, nel rione De Gasperi.
La “breve parentesi” presso la casa circondariale di Poggioreale non ridimensiona le velleità di Cito che, trasferitosi nel Parco Merola di Ponticelli, recluta nuova manovalanza per tentare l’ambiziosa “scalata al potere”.
Il piano camorristico di Cito, classe 1976, padre di 4 figli e proprietario di due cani, viene smorzato da due episodi cruciali: un mancato agguato e l’arresto.
Dopo il raid armato dell’11 aprile, costato la vita all’amico e gregario Vincenzo Pace, al quale lo stesso Cito sopravvive con la consapevolezza che i cecchini li avevano raggiunti per uccidere lui, Pierino trascorre le sue giornate standosene rintanato nel suo appartamento nel parco Merola di Ponticelli ed esce solo se e quando è strettamente necessario. Vive da “sorvegliato speciale”, ma non ridimensiona le sue velleità, tant’è vero che furono le forze dell’ordine a sventare il suo tentativo di vendicare la morte di Pace.
Ne erano consapevoli i De Micco, tant’è vero che nel maggio del 2016 architettarono un ingegnoso agguato, ideato nuovamente per eliminare l’aspirante boss Emanuele Cito. Al calar del sole, la sua auto, parcheggiata all’interno del Parco Merola di Ponticelli, fu prima scassinata e poi spintonata fino al cancello d’ingresso perennemente aperto, dove fu data alle fiamme.
Secondo gli inquirenti, i De Micco avevano messo in atto una simulazione di furto con l’intento di indurre “Pierino” a lasciare il suo bunker per recuperare l’auto, mentre i killer erano appostati e pronti a sparare, non appena Cito sarebbe sceso in strada per sedare l’incendio. L’aspirante boss, però, legge immediatamente la reale intenzione celata dietro quel raid incendiario e si guarda bene dal precipitarsi in strada per spegnere le fiamme.
Nessuno dei residenti del parco Merola, quella sera, si prenderà la briga di domare l’incendio che verrà placato solo dai vigili del fuoco. Restano tutti barricati in casa, a sbirciare dal balcone e dalle finestre quello che sta accadendo in strada.
“Hanno incendiato la macchina di quello che voleva comandare lui”: bisbiglia il popolo addentrato nelle dinamiche della malavita locale. Dal suo canto, “Pierino” si affaccia al balcone ed inizia ad urlare frasi piuttosto eloquenti contro gli aguzzini appostati per stanarlo: “se questa è la malavita, meglio fare il pentito”, “viva la PS”, “viva l’omertà”.
A distanza di un mese da quella “notte di fuoco”, anche il nome di Emanuele Cito finisce nell’elenco dei 94 arrestati nell’ambito dell’operazione “Delenda” volta a sgominare il clan D’Amico e il business dello spaccio di droga tenuto in piedi dall’organizzazione, non solo nel Rione Conocal di Ponticelli.
Emanuele Cito, come altri 78 destinatari di quel provvedimento, ha scelto il rito abbreviato per mirare alla riduzione della pena.