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13 marzo 2018: ucciso in un agguato Salvatore “Poppetta” D’Orsi. L’ombra di “o’ tigre” su quell’omicidio

Redazione Napolitan di Redazione Napolitan
13 Marzo, 2021
in Cronaca, In evidenza
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13 marzo 2018: ucciso in un agguato Salvatore “Poppetta” D’Orsi. L’ombra di “o’ tigre” su quell’omicidio
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29216259_1206277949537981_4691072723005066400_n13 marzo 2018: un martedì sera come tanti, ma non nel Rione Lotto O di Ponticelli, fortino del clan egemone in quel momento storico. Poco prima della mezzanotte, gli spari della camorra legano a quella data l’ennesimo omicidio, tuttora avvolto nel mistero.

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A finire nel mirino di un killer, materializzatosi in via Oplonti in sella ad uno scooter guidato da un complice, è il 29enne Salvatore D’Orsi, detto “Poppetta”.

D’Orsi, colpito da almeno tre proiettili all’addome e al torace, riesce a tornare a casa dopo l’agguato. Sarà il padre ad accompagnarlo al pronto soccorso dell’ospedale Villa Betania, dove verrà sottoposto ad un intervento chirurgico d’urgenza che non riuscirà a salvargli la vita, troppo compromesse le sue condizioni. Morirà all’alba del giorno seguente.

“Poppetta”, un giovane come tanti, vissuto e morto nel rione Lotto O, aveva piccoli precedenti penali per ricettazione e stupefacenti, avrebbe pagato con la vita un diverbio nato con “la persona sbagliata”. 

Una premonizione che trapela dai post che il 29enne pubblicava nei giorni precedenti all’agguato sui social network: “Non mi fate la guerra che poi la perdete”, “Il leone è ferito ma non è morto”, “Stai senza penzier, che a tutto il resto pensa il destino”, sono alcune delle frasi pubblicate sul suo profilo facebook, accompagnate dalle “solite” emoticon. Bombe, pistole: immagini utili a rafforzare il concetto e renderlo più esplicito. Nell’era del 2.0 la malavita si impone anche così. A suon di frasi ad effetto da rimarcare sui social network.

Qualche giorno prima di morire, D’Orsi scrive: “Quando morirò non venire alla tomba per dirmi quanto mi ami e quanto ti manco, perché quelle sono le cose che voglio sentire mentre sono vivo” una frase che, con il senno di poi, risuona come una sorta di premonizione.

Anche poco prima di finire nel mirino dei sicari, “Poppetta” aveva pubblicato un post su facebook: “Si scende, si va al rione Traiano. Stiamo arrivando”.

Probabilmente, proprio annunciando la sua imminente uscita, D’Orsi ha dato ai suoi aguzzini la possibilità di “vestirsi” – recuperare una pistola – e scendere in strada per stanarlo nei pressi della sua abitazione.

Una rapidità d’azione che confermerebbe l’ipotesi che a sparare sia stato un killer “residente in zona”. Amici e conoscenti di “Poppetta”, continuano a ribadire a gran voce da diverso tempo di essere certi che l’esecutore materiale dell’omicidio sia Michele Minichini detto “o’ tigre”, killer spietato del clan Minichini-De Luca Bossa, figlio del boss Ciro Minichini detto “Cirillino”. Il giovane “bad boy” della malavita di Napoli est sarebbe stato riconosciuto dai testimoni oculari soprattutto grazie ad un dettaglio non trascurabile: il vistoso tatuaggio che esibisce sul capo e che raffigura una tigre con le fauci spalancate. Minichini, quando eseguiva “stese”, omicidi, raid ed azioni criminali, era solito non coprirsi il capo, proprio perchè desiderava essere riconosciuto. Voleva che tutti lo vedessero e che tutti sapessero che la pistola più temibile di Ponticelli era la sua. Anche e soprattutto servendosi di quel modus operandi, ‘o tigre ha consacrato la sua tempra di spietato killer della camorra e al contempo ha consolidato la sua credibilità, facendo leva sull’omertà della quale era sicuro di poter beneficiare, soprattutto in un rione come il Lotto O che già in occasione dell’omicidio Colonna-Cepparulo gli aveva dato ampie garanzie di affidabilità, in tal senso.

Alla guida dello scooter che avrebbe condotto Minichini a tu per tu con D’Orsi, il suo giovane e fedelissimo braccio destro G.P., un giovane intenzionato a fare carriera tra le fila della camorra e che per questo era diventato la servile ombra di ‘o tigre. Pronto a tutto pur di accondiscendere alla volontà di Minichini.

Per quanto concerne il movente, ‘o tigre avrebbe maturato la decisione di uccidere D’Orsi in seguito ad un alterco nato per futili motivi, probabilmente legati alla compravendita di droga e alla gestione del business dello spaccio nel Lotto O. Chi ha conosciuto e temuto la furia omicida di Michele Minichini, lo descrive come un killer drogato di sangue, in preda a vere e proprie crisi d’astinenza da omicidi. ‘O tigre doveva sparare per uccidere, perchè non sapeva più vivere senza quell’adrenalina mista ad onnipotenza che lo travolgeva come un treno tutte le volte che premeva il grilletto per decretare la morte di un uomo.

Quello di Salvatore “Poppetta” D’Orsi potrebbe essere l’ultimo di una lunga carrellata di omicidi di cui si è macchiato il ras Minichini, arrestato il 26 marzo 2018, proprio perchè accusato di essere l’esecutore materiale dell’omicidio del boss dei Barbudos Raffaele Cepparulo, avvenuto nel Lotto O a giugno del 2016. Per quell’omicidio, ‘o tigre è stato condannato all’ergastolo, insieme ad altre 7 figure di spicco del sodalizio camorristico tra i clan di Napoli est. 

A far luce sull’omicidio di Salvatore D’Orsi e su altri fatti di sangue che si sono verificati a Ponticelli dal 2016 al 2018, potranno sicuramente concorrere le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, in primis da una delle figure di spicco della malavita locale più legate a Minichini: Tommaso Schisa, figlio dell’ex Sarno Roberto Schisa e della “pazzignana” Luisa De Stefano.

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