Il surriscaldamento globale e l’inquinamento atmosferico influenzano la trasmissione e la sopravvivenza del Covid-19 alterando nel contempo il sistema immunitario umano.
Questo è quanto emerge da uno studio condotto da un gruppo di ricerca guidato da Christian Mulder, titolare della cattedra di Ecologia dell’università di Catania, e dal reparto di Genetica dello stesso ateneo sull’andamento spazio-temporale della prima ondata in 82 centri urbani sparsi per l’Italia.
La ricerca ‘Beyond virology: environmental constraints of the first wave of Covid-19 cases in Italy’ è stata pubblicata sulla rivista scientifica ‘Environmental Science and Pollution Research’ della ‘Springer Nature’.
“La prima ondata della pandemia ha evidenziato drammaticamente i ruoli chiave del clima e della chimica dell’aria nelle epidemie virali – spiega Mulder – e in Italia i primi focolai rispecchiano l’industrializzazione del nostro Paese. Una mappa di calore ha permesso di confrontare quantitativamente il numero di casi Covid-19 a livello provinciale, se non comunale, con recenti dati relativi all’urbanizzazione ed al particolato fine (PM 2,5), alla temperatura media, alle precipitazioni medie ed indirettamente alla copertura nuvolosa diurna, consentendo di verificare come due macroregioni italiane al nord ed al centro-sud si differenzino con una significativa statistica mai individuata prima”.
“I nostri risultati – si legge nella ricerca – indicano la qualità dell’aria (PM 2.5) come uno dei parametri più rilevanti che hanno influenzato la diffusione del virus durante la prima ondata, giustificando l’elevato livello di variabilità sulla disseminazione virale osservato nelle diverse aree geografiche in Italia. È stato evidenziato inoltre – sottolinea il docente – che in alcuni nuclei familiari erano presenti soggetti positivi al Covid-19 e familiari conviventi che non mostravano sintomi della malattia oppure non erano stati contagiati. Ciò suggerisce che l’insorgenza della malattia Covid-19 sia chiaramente correlata a una differenza genetica tra gli individui con polimorfismi di geni umani correlati al ciclo di vita del virus Sars-CoV-2 nelle cellule umane”.
Un studio risalente ad aprile dello scorso anno dell’università di Harvard, pubblicato sul New England Journal of Medicine e riferito agli Stati Uniti, ha messo in relazione l’inquinamento e il coronavirus giungendo a conclusioni piuttosto preoccupanti: la mortalità legata al coronavirus è superiore del 15% se la popolazione è esposta, sul lungo termine, all’aumento di 1 ug/m3 della concentrazione atmosferica di PM2.5.
In Italia, un Position paper pubblicato dalla Società italiana di medicina ambientale e da un gruppo di studiosi delle università di Bari e Bologna sostiene che i focolai particolarmente intensi della Pianura padana siano stati facilitati dalle condizioni di inquinamento da particolato atmosferico che oltre all’azione di boost, quindi amplificatore degli effetti sul polmone dei malati, sarebbe in grado di esercitare anche un effetto di carrier, facendo da veicolo per la diffusione del virus. Una posizione, quest’ultima, sulla quale la comunità scientifica ha pareri discordanti.
Siamo di fronte a un’epidemia da malattia virale e i primi determinanti di una malattia trasmissibile sono i contatti tra le persone. Risulta errato considerare la malattia Covid-19, dovuta all’infezione da virus Sars-Cov-2, come se fosse un infarto, un’infezione delle vie respiratorie, una broncopneumopatia cronica ostruttiva o una malattia respiratoria acuta. E’ una malattia virale che quindi necessita di essere trasmessa e le aree dove si trasmette sono effettivamente quelle più densamente popolate, quelle dove ci sono più scambi, dove le persone entrano maggiormente in contatto tra loro e verso il mondo esterno. E’ chiaro che molte di queste aree, avendo queste caratteristiche, sono anche inquinate: pensiamo a Wuhan, a New York, a Milano.