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Camorra, ex Sarno in carcere cerca di convincere collaboratore di giustizia a ritrattare

Luciana Esposito di Luciana Esposito
20 Gennaio, 2021
in Cronaca, In evidenza
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Camorra, ex Sarno in carcere cerca di convincere collaboratore di giustizia a ritrattare

Mario Morgese

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Dal carcere per i pentiti in cui era detenuto, un ex Sarno, ha cercato di convincere il figlio di un boss a ritrattare: un retroscena che racconta le trame imprevedibili che si avvicendano anche tra le mura delle carceri in cui i collaboratori di giustizia scontano le loro pene.

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E’ successo nel carcere di Paliano, protagonista della vicenda l’ex Sarno Mario Morgese, stimato essere uno degli elementi di spicco dell’alleanza nata tra alcuni esponenti del clan Longobardi-Beneduce e il clan Sarno che in quel periodo stava cercando di espandersi ben oltre il Rione De Gasperi di Ponticelli. In quest’ottica si collocano una serie di omicidi avvenuti nel 2008 e voluti per consacrare il potere del suddetto sodalizio camorristico nell’area flegrea. Per questo motivo il 42enne Mario Morgese detto ‘o cecat è stato condannato a 14 anni di reclusione nel 2019, quando già aveva maturato la decisione di passare dalla parte dello Stato.

Mario Morgese
Mario Morgese

L’alleanza tra i Longobardi e i Sarno nacque in carcere nel 2007, per volere dei boss Luciano Sarno e Gennaro Longobardi. Un accordo che prevedeva l’espansione della cosca di Ponticelli nell’area puteolana, in cambio di un appoggio militare nell’ambito della faida in cui erano impegnati i Longobardi. I Sarno s’impegnarono, dunque, a garantire uomini, mezzi ed armi ai nuovi alleati, in cambio del controllo di estorsioni e spaccio.

Secondo i racconti che un altro detenuto ha riportato alla magistratura di recente, Morgese avrebbe esercitato delle pressioni su  Emanuele Mancuso, rampollo di una delle famiglie più autorevoli della ‘Ndrangheta e figlio di Luni Mancuso “l’ingegnere”, uno dei capi storici del clan. Emanuele Mancuso è il primo membro della famiglia ad aver maturato la decisione di voler collaborare con la giustizia.

O’ cecat, detenuto nello stesso carcere di Emanuele Mancuso, un giorno, avvicinandosi a quest’ultimo gli chiede: “Tu sei il figlio di Luni?” ed Emanuele rispose: “Sì, come conosci mio padre?”, Morgese replica: “No, io sono nu compariello suo”.

Secondo le dichiarazioni rese dall’ex capomafia lucano Antonio Cossidente al pm antimafia Anna Maria Frustaci, Morgese raccontava di essere stato detenuto a Vasto con Luni l’Ingegnere, padre di Emanuele Mancuso.

“Siamo entrati in rapporti d’affari con tuo padre”, avrebbe spiegato ‘o cecat a Mancuso, riferendosi al business della droga che vedeva i camorristi di Forcella andare a Nicotera per rifornirsi di stupefacenti. Per dare a Mancuso una prova inconfutabile dell’attendibilità delle sue dichiarazioni, Morgese fornisce un particolare del quale solo poche persone erano a conoscenza: “Tuo padre ha un tatuaggio che si è fatto come tua madre, hanno una farfalla”.

Cossidente racconta alla pm che Morgese «parlava molto bene di Luni, del padre. E iniziò a fare un’opera di convincimento nei confronti di Emanuele di non farlo collaborare».

“Ma tu pensaci bene, ma che stai facendo? La tua famiglia non si merita questo. Anche se io sono collaboratore però pensaci bene perché tu stai rovinando una famiglia… Io ci tengo assai a tuo padre”. Il napoletano ed il figlio dell’Ingegnere tornarono sull’argomento, al passeggio, durante l’ora d’aria.

Al rientro in cella, Emanuele era «molto scosso» e chiese consiglio proprio a Cossidente, col quale si era creato un legame di amicizia forte e sincero: «Disse “Antonio, ti devo dire una cosa: questo insiste che io devo ritrattare, insiste, insiste, insiste. Perché?”. Allora, Cossidente rispose: “Fammi il piacere, non camminare più con sto Morgese, tu da questo momento non devi più avere rapporti con questa persona. Tu devi continuare a collaborare, non pensare a nessuno”».

Il racconto di Cossidente al pm prosegue: «Chiamai questo Morgese ed ebbi un piccolo diverbio, ho detto “Tu non ti permettere più di andare vicino ad Emanuele a dire che non deve collaborare, non ti permettere assolutamente più, da questo momento buongiorno e buonasera! Tu con Emanuele devi chiudere i rapporti”. “No, ma io lo faccio per lui perché sono amico del padre”». Ma il pentito di camorra era ostinato: «Questo Morgese, dottoressa, gli disse anche “Levati l’avvocato Nicolini”. Dice “Ti faccio mettere l’avvocato mio”».

In sostanza, secondo Morgese, come primo passo verso la ritrattazione, Mancuso doveva revocare il suo legale di fiducia, l’avvocato Antonia Nicolini. Antonio Cossidente, anche stavolta, fu risoluto nei confronti del giovane Mancuso: «Io dissi “Tu non ti metti nessuno, devi tenere all’avvocato Nicolini perché è una persona perbene, seria e ti sta seguendo con amore”». Tenne duro, Emanuele Mancuso, anche stavolta e Morgese se la prese, per questo, con l’ex capo dei Basilischi: «Ce l’aveva con me perché disse “Tu lo difendi troppo, tu qua, tu là”. Cioè m’aggi fattu n’atu nemico…». Antonio Cossidente era divenuto una sorta di angelo custode del giovane collaboratore di giustizia vibonese, che trovò un punto di riferimento importantissimo quando fu trasferito nella cella dell’ex mafioso lucano.

Inizialmente, a Paliano, nel carcere dei pentiti, Emanuele Mancuso fu associato alla prima sezione. Un giorno, secondo quanto riferito da Cossidente, fu aggredito da un altro detenuto napoletano: Lorenzo Cozzolino, uno degli scissionisti del clan Vollaro di Portici.

Dopo quel pestaggio, la direttrice del carcere chiamò Antonio Cossidente e gli chiese se fosse disponibile ad accogliere nella sua cella Emanuele Mancuso. Cossidente accettò senza indugi. Così Emanuele, dopo aver rinnegato il padre che aveva fuori, ne trovò un altro all’interno del carcere. A sua volta Cossidente trovò un figlio, coetaneo di quello vero che aveva lasciato nel mondo esterno e che non poteva vedere.

Di recente, Emanuele Mancuso dopo essersi rivolto senza successo al Tribunale per i minorenni di Catanzaro, ha divulgato una lettera aperta in cui chiede aiuto per salvare la figlia di appena 30 mesi dalle grinfie della ‘ndrangheta.

“Intendo manifestare il mio stato di frustrazione e preoccupazione per le sorti di mia figlia, di soli 30 mesi di vita, poiché, nonostante le notorie vicende legate alle pressioni da me subite per la scelta intrapresa, ella, seppur sottoposta allo speciale programma di protezione, nella realtà dei fatti, grazie alla disponibilità della madre, Chimirri Nensy Vera, mantiene contatti con gli ambienti ‘ndranghetistici”, scrive l’uomo nell’appello.

 

 

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