Una vicenda che sembra estrapolata da un copione cinematografico e che, invece, racconta una vera “storia di camorra”, ambientata nel comune vesuviano di Ercolano.
E’ la storia di due donne: una madre e una lady-camorra.
Tutto ha inizio la notte del 17 dicembre 1986. Raffaele Iodice, di 26 anni, primogenito di Cira,bazzicava in una banda che faceva estorsioni nella zona di Ercolano e San Giorgio a Cremano. La 50enne Cira aveva tentato in tutti i modi di allontanarlo da quella strada, ma Raffaele non riusciva a sottrarsi al richiamo dei soldi facili. Intorno alle 23.30, mentre Raffaele era in una panetteria di Ercolano, venne raggiunto da quattro persone che gli chiesero di andar via con loro.
All’alba del giorno dopo, il 18 dicembre, il cadavere di Raffaele fu trovato in una campagna nella zona di San Vito. Seppure l’autopsia stabilirà che il delitto sia avvenuto intorno alla mezzanotte. Il corpo, dopo l’ esecuzione, resta piegato come quando si è seduti. Per gli inquirenti è un indizio importante che lascia dedurre che l’omicidio sia stato compiuto da un amico mentre Raffaele era nella sua macchina ferma. Dell’auto però nessuna traccia. Gli assassini scavano una fossa per seppellire il corpo. Ma si vedono costretti a smettere perché i cani da guardia del fondo agricolo, incominciano ad abbaiare.
Le indagini furono avviate da subito, ma non portarono a nulla. Troppa omertà troppa paura.
Cira non riusciva a darsi pace: doveva scoprire chi aveva ucciso suo figlio ed assicurare giustizia alla morte di quel figlio che tanto amava e non era riuscito a salvare. La donna interrogò tutti gli amici del figlio: per quattro mesi setacciò tutte le attività commerciali della zona, come un vero investigatore. Tant’è vero che ben presto fu soprannominata “la mamma detective”.
In quei tristi e concitati frangenti che segnarono la sua attività da “detective”, Cira finisce sotto scorta, sorvegliata giorno e notte da tre uomini armati.
Fu proprio Cira, grazie a quell’incessante attività investigativa, ad identificare i quattro malviventi, artefici dell’assassinio di suo figlio Raffaele. Quell’intrepido cuore di mamma, riuscì a rompere il muro dell’ omertà e della paura.
Fu lei ad indicare alla polizia i quattro giovani e tutti i testimoni che avrebbero potuto confermare le accuse. E’ stata lei a raccontare particolari, precedenti episodi, fatti significativi.
La mamma detective riesce a chiudere il cerchio delle indagini intorno a quattro nomi: Mario Colini, Simone Borrelli, Antonio De Crescenzo e Bernardo Ammendola e a tre possibili moventi: Raffaele chiedeva troppo denaro e dava fastidio o aveva avuto un diverbio con qualche “pezzo grosso” della malavita locale o voleva fidanzarsi con la sorella di uno dei quattro artefici dell’omicidio che, però, non lo voleva per cognato. Eppure, la donna è certa: Raffaele fu ucciso perchè voleva chiudere con il racket.
“Quando hanno ucciso mio figlio Raffaele hanno ucciso anche me. Per questo non temo più nulla. Ho scoperto gli assassini di mio figlio e farò di tutto perché vengano condannati.” Inizia così la sua testimonianza nel processo contro gli assassini di suo figlio, due anni dopo il delitto. Una deposizione durata cinque ore, nel corso della quale la donna spiegò anche come era arrivata ad ottenere quelle informazioni: “All’ inizio qualcuno mi ha preso per pazza. Mi dicevano: ma che fai? Qui c’ è troppa omertà, troppa paura di parlare. Le bocche sono cucite e non saprai niente da nessuno. Poi, invece, quando hanno visto che io insistevo, qualcuno mi ha dato una mano: prima qualche parola, poi qualche nome. Ho raccolto anche le cose più insignificanti. Ci son voluti diversi mesi. I veri amici di mio figlio mi hanno aiutata. Quando nelle sue mani sono finiti indizi importanti, non sono mancate le intimidazioni. Mi svegliavano anche di notte. Facevano suonare il telefono o veniva qualcuno a bussare alla porta e poi scappava. Non sono mai stata capace di sapere chi era. Sapevo che se la faceva con cattivi compagni e che lavorava nel racket. Ma non meritava di fare quella fine. Lui era buono e odiava il sangue. Gli assassini sono delle belve. Non avrò pace fino a quando non saranno stati puniti. Lo so che questo non mi potrà ridare mio figlio. Ma se si tolgono di mezzo un po’ di delinquenti, tanti figli di mamme come me potranno avere una vita più onesta. La mia non vuole essere una vendetta, ma una punizione per chi ha assassinato mio figlio.”
La mamma detective riesce ad ottenere giustizia per la morte del figlio, ma anche il disappunto del clan Ascione-Papale, al quale erano affiliati i quattro giovani condannati. In particolare, le indagini avviate da Cira avevano infastidito Immacolata Adamo, moglie del boss defunto Raffaele Ascione.
Donna Imma, considerata e rispettata come un vero capo dai gregari del clan, nell’ottobre del 1993, ordinò una vendetta spietata. La donna-boss chiese ai suoi uomini di disseppellire il cadavere di Raffaele Iodice dal cimitero di Ercolano e disperderlo nella zona di San Vito.
Per più di 20 anni, Cira, quel mistero, non era riuscita a smascherarlo.
La camorra le ha sottratto la possibilità di onorare la memoria del figlio e al posto della sua tomba, le ha imposto di contemplare una fossa nera e vuota.
Una verità emersa solo in seguito alle testimonianze rese dai collaboratori di giustizia.