Le forze dell’ordine continuano a scandagliare la periferia orientale di Napoli, a caccia del latitante più ricercato del momento: Ciro Rinaldi, reggente dell’omonimo clan, il cui quartier generale si concentra nella zona del Rione Villa a San Giovanni a Teduccio, quartiere della periferia orientale, alle porte di Napoli. Ed è proprio lì, nel cuore della sua roccaforte, che la caccia al 55enne, latitante dallo scorso 31 ottobre, si fa più serrata.
“My Way”, – questo il soprannome che il boss ha guadagnato da giovane, in virtù dell’assidua frequentazione della discoteca così denominata – non può essere molto lontano dal suo fortino, così come dalla fetta di territorio che da anni si contende con gli acerrimi rivali del clan Mazzarella e che al momento lo decreta vincitore.
My Way è accusato del duplice omicidio di Raffaele Cepparulo, boss dei barbudos del Rione Sanità e di Ciro Colonna, 19enne estraneo alle dinamiche camorristiche e per questo arrestato il 26 marzo 2018, ma rilasciato dopo una dozzina di giorni per mancanza di indizi nei suoi confronti, complice proprio quel soprannome che poteva dire tutto e niente, secondo i suoi avvocati difensori. Già, perchè nelle intercettazioni al vaglio della magistratura, le parti coinvolte nella pianificazione dell’agguato in cui fu ucciso Cepparulo, si rivolgono al boss utilizzando un intercalare “ma-uè”, la versione dialettale del suo soprannome. Tanto è bastato per consentire a Rinaldi di tornare in libertà, di tornare nel Rione Villa, accolto da una scrosciante pioggia di fragorosi fuochi d’artificio. Diverso il ragionamento della Cassazione, che ha accolto invece il ricorso della Dda di Napoli. Proprio quando la Dda di Napoli, nella persona della pm Antonella Fratello, ha chiesto di nuovo l’arresto del boss in relazione al duplice omicidio Colonna-Cepparulo, ha avuto inizio la latitanza del boss del Rione Villa.
Una costante che si ripete nella vita di Rinaldi, abituato a beneficiare egli assist che la fortuna ama servirgli: il 27 ottobre del 2015, fu annullata l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei suoi confronti nell’ambito dell’inchiesta sulla camorra di Forcella e l’alleanza tra il clan Rinaldi e i Brunetti-Amarante-Sibillo-Giuliano e i Contini del Vasto. Tornato in libertà, Ciro Rinaldi impugna le armi e dà ufficialmente inizio alla faida con i Mazzarella, consolidando l’ascesa del clan che porta il suo cognome, avviata nel 2013. Una faida particolarmente accesa nella zona tra Marigliano e Somma Vesuviana, dove un focolaio dei Mazzarella si contrappone ai “paesani” capeggiati da Luigi Esposito detto “o’ sciamarro”, vicini ai Rinaldi.
Una mente da cinico stratega e il livore tipico del criminale spietato, di per sè bastano a spiegare come e perchè Ciro Rinaldi si ritrova a capo di un sodalizio criminale nel quale convergono diversi clan satellite, uno capeggiato da Luigi Esposito detto “o’ sciamarro”, alleatosi con Rinaldi per evitare che le mire espansionistiche dei Mazzarella potessero convergere all’interno del comune vesuviano sotto il suo controllo, un altro controllato da Luisa De Stefano, “La pazzignana” del Rione De Gasperi di Ponticelli.
“Le pazzignane” e “i paesani”, Ponticelli e Marigliano: due clan, due realtà relegate e riconducibili a confini territoriali distinti e distanti, eppure legate a filo doppio, così come comprovano le gesta criminali che valgono l’arresto a Tommaso Schisa, figlio della “Pazzignana” Vincenza Maione, nipote della donna-boss Luisa De Stefano, compiute proprio lungo le strade del comune dell’entroterra vesuviano. Un sodalizio criminale fondato su un vincolo di parentela quello che lega la De Stefano e il suo consuocero: “o’ sciamarro”. Un legame che si rafforza con la benedizione e la supervisione di Ciro Rinaldi, che fiuta nell’aria la volontà di questi ultimi di supportare la sua guerra contro i Mazzarella, intenzionati ad estendere la propria egemonia fino a Nola. E’ così che nasce l’alleanza sancita tra il clan Rinaldi, “le pazzignane” di Ponticelli e “i paesani” di Marigliano, voluta per contenere e contrastare l’ascesa dei Mazzarella e per gestire al contempo il circolo degli affari, soprattutto del prolifero business della droga.
Il cartello criminale si sarebbe sciolto una volta compiuto il piano comune che consentì al clan Rinaldi di stringere una preziosa alleanza anche con i Sibillo di Forcella: l’omicidio di Vincenzo De Bernardo.
Sei fratelli maschi, sei cugini, tutti molto uniti tra loro: questi e molti altri i “numeri fortunati” del clan Rinaldi, complice anche la casualità che seguita a metterci lo zampino, disseminando nell’area di competenza della cosca del Rione Villa molti casi di omonimia. La scarcerazione dei fratelli di Ciro e di diverse figure di spicco, ritenuti fedelissimi storici del clan, hanno fatto il resto. Una mente cinica e astuta, oltre che un’anima assetata di potere come quella del boss Ciro Rinaldi, non poteva esimersi dal disegnare un piano volto ad approfittare del vuoto di potere insorto a Ponticelli dopo la resa dei De Micco. Nasce così l’alleanza con i Reale del Rione Pazzigno e i Formicola di via Taverna del Ferro, oltre che con i Minichini-Schisa e ai reduci del clan Cuccaro di Barra, animata da un duplice intento: conquistare Ponticelli scalzando definitivamente i De Micco e attaccare i Mazzarella per detenere l’indiscusso e incontrastato controllo della periferia orientale di Napoli.
Un disegno confermato dalle testimonianze rese dai collaboratori di giustizia del clan Mazzarella, Francesco Mazzarella e Raffaele Sollo.
Giorgio Sorrentino, pentito del clan Rinaldi, invece, ha spiegato la valenza di un altro numero ricorrente nel linguaggio camorristico del clan il “46”: il numero che indica la zona del Rione Villa, la roccaforte del clan, e che suggella fedeltà e senso d’appartenenza al clan, non a caso scalfito in maniera indelebile sulla pelle di Ciro Rinaldi, Raffaele Maddaluno detto insalata e Raffaele Oliviero detto ‘o pop. Questi i tre cardini che costituiscono le fondamenta del clan, al quale va aggiunto il nome di Sergio Grassia detto Sergiolino e quello di suo fratello Ciro. Sono loro i quattro fedelissimi della ’46’ in grado di assicurare al boss protezione militare ed economica, dopo che Pasquale Rinaldi, Ciro Rinaldi (cugino omonimo del boss) e Giovanni Nocerino si sono consegnati spontaneamente alle forze dell’ordine.
A favorire l’ascesa del clan Rinaldi, sono stati due eventi ben precisi: l’omicidio di Salvatore Soropago e l’arresto di Salvatore Fido. Un delitto strategico, una “morte pesante”, destinata a lasciare il segno e decretare le sorti dell’assetto criminale che si sta rapidamente ridisegnando. Soropago era ritenuto il braccio destro di Salvatore Fido, a sua volta figura di spicco del clan Mazzarella, arrestato poche settimane fa in una villetta di Varcaturo. A tradirlo il rapporto con una donna che lo ha portato a compiere un madornale passo falso e che ha fatto scattare le manette.
Una leggerezza che, dal suo canto, Ciro Rinaldi si è guardato bene dal compiere. Seppure il momento che attendeva da anni e che da tempo immemore lo portava a combattere una faida a suon di pistolettate, stese, agguati e raid intimidatori, fosse finalmente giunto e abbia flirtato con l’idea di gustarselo dall’alto del suo arsenale, My Way ha tagliato la corda, prima che fosse troppo tardi. Quando ha appreso che il verdetto emesso dalla Cassazione sanciva per lui la perdita della libertà, My Way ha impartito ordini e disposizioni ai suoi uomini per poi rendersi irreperibile e far perdere le sue tracce.
E poi, a contorno di tutto, c’è quella parentesi, imbarazzante per lo Stato, al pari dell’indulgenza che ha consentito ad uno dei ricercati più pericolosi dell’attuale scena camorristica di guadagnare lo status di latitante in fuga.
Nel febbraio del 2018, nel corso di una perquisizione nell’abitazione in cui il boss viveva prima della latitanza con la moglie, gli agenti del commissariato Barra-San Giovanni trovarono due orologi di lusso, un rolex e un cartier, oltre a 2.500 euro in contanti.
I due, in quella circostanza, vennero denunciati perchè non furono in grado di giustificare quei possedimenti, tutt’altro che confacenti al loro status dichiarato di “nullatenenti”.