Un omicidio che ha sancito una svolta significativa nell’assetto dei nuovi equilibri criminali delle organizzazione della periferia orientale e del centro storico napoletano: l’agguato in cui perse la vita Raffaele Cepparulo, infatti, decretò l’alleanza tra i cartelli Minichini-Rinaldi-Schisa, ma anche con i Sibillo, nemici storici dei “Barbudos”.
Una faida e un’alleanza che avevano avuto inizio per osteggiare un nemico comune, i Mazzarella, scomodi ai Rinaldi nella zona della Case Nuove e di San Giovanni, ma anche ai Sibillo perchè sconfinarono anche nella zona di Forcella. Un sodalizio che si era rafforzato anche e soprattutto attraverso lo scambio di uomini e mezzi – così come comprova la partecipazione all’omicidio Cepparulo di un uomo dei Sibillo – e che attualmente si traduce in una proficua collaborazione nelle azioni criminali.
L’omicidio Cepparulo e le modalità e le dinamiche nell’ambito delle quali è maturato, sono tutte illustrate nelle 100 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmate dal GIP Alessandra Ferrigno. Una morte necessaria per stroncare sul nascere le velleità del boss dei Barbudos che nonostante avesse trovato rifugio tra le mura del clan De Luca Bossa, aveva stretto una pericolosa alleanza con il clan De Micco, così come confermato dall’ex “bodo” Rocco Capasso nelle testimonianze rese da collaboratore di giustizia, riportate anche nell’ordinanza del GIP Ferrigno.
Pagine pregne di prove, ricostruzioni e collegamenti utili a ricostruire il nuovo assetto camorristico insorto e sancito nel segno dell’agguato in cui perse la vita il boss dei Barbudos del Rione Sanità Raffaele Cepparulo detto “ultimo” che, in seguito a quella che fu ribattezzata “la strage delle fontanelle” nell’aprile del 2016, per sfuggire alla vendetta dei rivali del clan Vastarella, trovò rifugio ed ospitalità nella roccaforte del clan De Luca Bossa di Ponticelli: il Lotto O. Cepparulo fu ucciso il 7 giugno del 2016, nel circolo ricreativo di proprietà di Umberto De Luca Bossa, ai piedi del plesso P4, l’edificio di edilizia popolare in cui storicamente vive la famiglia egemone del rione.
Rocco Capasso racconta che il boss dei Barbudos era solito recarsi a San Rocco, presso l’abitazione di Roberto Scala, uno dei fedelissimi della cosca dei tatuati. Capasso fa riferimento ad una “stesa” che Cepparulo, con il supporto di Roberto Scala, pianificò e portò a compimento nel Rione Sanità, contro le abitazioni di alcuni esponenti del clan Vastarella, e alla quale parteciparono Genny Sorrentino, Moreno Cocozza, Roberto Pane e Michele Gentile. A bordo di possenti SH le reclute del clan De Micco partirono alla volta del Rione Sanità, esplosero diversi colpi d’arma da fuoco nei pressi dei “bassi” dove abitavano i rivali di Cepparulo e nel rientrare a Ponticelli, alcuni sicari vennero intercettati dalle forze dell’ordine. Nella fattispecie, Genny Sorrentino fu fermato dalla polizia.
Un paio di mesi prima di andare incontro alla morte, Cepparulo andò in via Luigi Crisconio e chiese proprio all’attuale collaboratore di giustizia Rocco Capasso di organizzargli un incontro con Luigi De Micco, poichè aveva necessità di procurarsi una pistola. Dal suo canto, il reggente del clan dei tatuati, subentrato in cabina di regia in seguito all’arresto dei fratelli Marco e Salvatore, non aveva speso parole di stima per il leader dei Barbudos: “ha la mentalità dei pazzignani”, esclamò Luigi De Micco in senso dispregiativo, in quanto non ne apprezzava i modi spavaldi e l’ostentazione di ricchezza attraverso oggetti sfarzosi, come la voluminosa medaglia di Versace che Cepparulo era solito indossare al collo. Tuttavia, la cosca egemone a Ponticelli in quel momento storico, diede appoggio al giovane Barbudos, fiutando in quell’alleanza un ulteriore punto di forza per continuare a tenere ben saldi gli artigli sul territorio.
Dal loro canto i clan che grazie ad una serie di alleanze stavano proprio prendendo le misure e studiando i tempi per capire come e quando aggredire i De Micco per riappropriarsi del quartiere, compresero che la morte di Cepparulo era necessaria per spegnere sul nascere quel focolaio che proprio tra le mura del clan De Luca Bossa poteva divampare, complice la presenza di Cepparulo in quella sede che come una serpe in seno tramava alle spalle dell’organizzazione che gli aveva offerto ospitalità. Al contempo, quella morte serviva per inviare un monito esplicito, temibile e severo al clan De Micco, forte dell’autorità derivante dal vortice di alleanze tra diversi clan che intendevano riappropriarsi di Ponticelli. Senza tralasciare le vecchie ruggini e i rancori, insorti negli anni della faida per il controllo del territorio, combattuta a suon di omicidi su entrambi i fronti, il più eclatante del quale fu quello del giovane Antonio Minichini, figlio di Anna De Luca Bossa e fratellastro di Michele Minichini, non a caso, probabilmente, due delle figure che hanno ricoperto un ruolo cruciale nell’organizzazione dell’omicidio del boss dei Barbudos.
Raffaele Cepparulo è stato ucciso da Michele Minichini, figlio del boss Ciro Minichini, condannato all’ergastolo in regime di 41 bis, e di Cira Cipollaro.
E’ in quest’ottica che viene collocato e raccontato nell’ordinanza di custodia cautelare del gip Ferrigno, l’omicidio Cepparulo. La condanna a morte del giovane, secondo quanto emerge dal racconto del gip, viene decretata in seguito ad un fatto ben preciso: alcuni giorni prima, Cepparulo aveva esploso diversi colpi d’arma da fuoco contro l’abitazione del boss Ciro Rinaldi, reggente dell’omonimo clan, sia contro l’abitazione di Cira Cepollaro.
Colpi di pistola esplosi per inviare un segnale all’uomo-simbolo dell’organizzazione insorta nel segno di quelle alleanze: Michele Minichini, il giovane che porta tatuata sulla testa la storia del suo percorso criminale. Una storia che nasce proprio in seguito alla morte di suo fratello Antonio Minichini, trucidato in un agguato sul quale vi era la firma dei De Micco, seppure estraneo alle dinamiche camorristiche. Dopo quella morte che sancisce “il salto di qualità” di Michele all’interno del clan di famiglia, il giovane si rasa la testa a zero e sulla base del cranio incide con inchiostro indelebile il suo cognome. Sulla tempia destra si tatua una granata, mentre sulla tempia sinistra una serie di proiettili esplosi. Al centro della testa c’è l’immagine di una tigre con le fauci spalancate, alla quale fa eco un’altra tigre sulla nuca. Del resto, “tiger” è il suo soprannome. L’ultimo tatuaggio inciso sul capo di Michele Minichini è un numero: 46, quello con il quale nel gergo camorristico si indica la zona del clan Rinaldi di San Giovanni a Teduccio.
E’ lo stesso Michele Minichini a rivelare alla sua compagna l’intenzione di uccidere Cepparulo, all’indomani della doppia stesa che il boss dei Barbudos aveva compiuto nella sua zona:«Mo buttiamo a terra il campo di Ultimo, – afferma Minichini ignaro di essere intercettato – ce lo mangiamo tutto, fino a casa sua. Lo rimaniamo a terra, fuori alla porta della moglie». Sarà proprio Michele Minichini ad uccidere Cepparulo, il giovane boss che a suo volta avrebbe voluto ucciderlo per fare un favore ai De Micco ai quali si era legato, entrando al contempo nelle grazie dei Mazzarella, con i quali aveva cercato un contatto.
Entrambi i clan avrebbero gradito ricevere in dono la testa di Minichini e il boss dei Barbudos, vedendo il suo destino ormai compromesso nel Rione Sanità, ipotizzava di riorganizzarsi grazie all’appoggio dei clan di Napoli est, per poi tentare la riconquista del “suo” rione, grazie all’appoggio dei Mazzarella, ai quali avrebbe dimostrato la sua fedeltà, oltre che le sue capacità, se fosse riuscito ad uccidere quello che, invece, si è rivelato il suo killer.
Era da tempo che diversi membri della cosca sospettavano che dietro la presenza nel quartiere di Cepparulo potesse celarsi la volontà dei clan rivali di uccidere qualcuno. Ferma sostenitrice di questa tesi la lady-camorra del Lotto O, Anna De Luca Bossa: «Quello si vuole filare a qualcuno, vuole azzeccare qualcuno a terra».
Quel pomeriggio, oltre a Raffaele Cepparulo, nel circolo ricreativo del Lotto O, perde la vita anche un innocente: Ciro Colonna. Ad ucciderlo è Antonio Rivieccio detto Cocò, uomo del clan Sibillo che, secondo le testimonianze, ha colpito il 18enne estraneo alle dinamiche camorristiche perchè al momento di sparare gli tremava la mano. Secondo altri testimoni, nel tentativo di mettersi in salvo, Ciro Colonna perse gli occhiali da vista e si chinò per raccoglierli. Rivieccio potrebbe aver interpretato quel gesto come il tentativo di afferrare un’arma per replicare al fuoco e per questo ha bruciato un colpo di pistola a sangue freddo contro il 18enne che lo ha raggiunto al petto, non lasciandogli scampo.