Camorristi spietati che violentavano le donne condannate a morte prima di giustiziarle, per poi farle a pezzi e scioglierle nell’acido e che hanno trucidato centinaia di vittime, facendole a pezzi per poi bruciare i resti nei cassonetti della spazzatura oppure murandoli nelle lastre di cemento o sotterrandoli in zone periferiche, deserte ed incolte. Senza tralasciare le tante vittime innocenti delle loro barbarie. Bambini, padri di famiglia, vite estranee alla camorra, uccise “per errore” o perchè il killer di turno era poco lucido, perchè drogato o non riusciva a contenere il livore di sangue.
Eppure, per i crimini commessi non hanno scontato nemmeno un giorno di carcere e mentre si trovano in località protetta, attraverso delle “dirette su facebook”, seduti al tavolino di un bar intenti a sorseggiare un caffè, scherniscono lo Stato e lanciano messaggi che inneggiano alla camorra e preannunciano il loro ritorno nel quartiere che hanno tenuto sotto scacco per oltre un ventennio: Ponticelli, ventre caldo della periferia orientale di Napoli, dove da diversi mesi imperversa l’ennesima faida di camorra.
A fare irruzione nuovamente nelle vite dei ponticellesi, durante i primi giorni del 2018, sono Giuseppe Sarno e sua cognata, Patrizia Ippolito detta “a patana”, moglie di Vincenzo Sarno.
I fratelli Sarno, fondatori della cosca criminale che a partire dagli anni ’80 e fino al 2009 ha ricoperto un ruolo di spessore nell’ambito delle dinamiche camorristiche napoletane, hanno conquistato Cercola, Somma Vesuviana, Sant’Anastasia, spingendosi fino al quartiere Mercato con l’alleanza dei clan Misso, Formicola e Ricci.
Giuseppe Sarno detto ”‘o mussillo” è stato un vero e proprio generale della camorra che ambiva ad estendere il più possibile l’egemonia della sua organizzazione criminale.
Dopo l’arresto dei fratelli Ciro e Vincenzo, Giuseppe Sarno subentra a capo della cosca e sembra determinato a tenere ben strette tra le mani le redini del clan fondato dalla sua famiglia.
Latitante dal gennaio del 2009, il 4 aprile dello stesso anno viene arrestato in un appartamento all’ultimo piano di via Trastevere al civico 148 a Roma. Sprezzante del pericolo, per il suo cinquantunesimo compleanno organizzò una festa con i familiari, nel suo nascondiglio. Ai carabinieri è bastato seguire i familiari per raggiungere “la tana del lupo”: quando fecero irruzione nell’appartamento in cui il boss si nascondeva, “o mussillo” cercò di fuggire sui tetti, ma non era abbastanza agire per riuscire a sottrarsi alla cattura.
Il carcere, però, si rivelò ben presto una pena troppo dura da patire e il boss di Ponticelli prese la decisione che ha sancito la fine dell’impero del male da lui stesso fondato: diventò collaboratore di giustizia.
Un pentimento che perfino i parenti contigui alla malavita non gli hanno mai perdonato e che valse fin da subito pesanti intimidazioni e minacce a sua moglie, Anna Emilia Montagna, per indurre il marito a ritrattare le dichiarazioni già rese e a non spingersi oltre, fornendo altri elementi agli inquirenti. Dopo il pentimento dello storico capoclan Giuseppe Sarno, è stato accertato che i suoi fratelli ed altri esponenti del clan avevano ripetutamente minacciato la moglie. Dalle indagini, infatti, è emerso che la decisione di Giuseppe Sarno ha provocato un autentico terremoto negli equilibri della criminalità organizzata napoletana, oltre ad un’irreversibile rottura dei rapporti con i fratelli, con i quali per anni aveva condiviso le responsabilità derivanti dalla gestione del clan di famiglia. In seguito al pentimento dell’ex boss, alcuni suoi familiari ed altri esponenti della cosca si sono recati più volte a casa della moglie, minacciandola di morte per indurre il marito a interrompere la collaborazione con la giustizia. Ad Anna Emilia Montagna sarebbe stato intimato, tra l’altro, di abbandonare il coniuge e la casa di famiglia, nel caso in cui Giuseppe Sarno non avesse ritrattato quanto già detto ai magistrati. Anche il figlio Salvatore, detto ‘Tore ò pazzo’, minacciava di morte sua madre per questo motivo. Il figlio di Giuseppe Sarno ha sin da subito intrapreso la carriera camorristica, tra le maglie del clan di famiglia e quando giunse la notizia del pentimento, puntò il dito contro la madre e le assicurò che sarebbe morta, se non si fosse impegnata, affinchè quell’uomo che rinnegò come padre terminasse la collaborazione con la giustizia.
Giuseppe Sarno non ritrattò, anzi, fornì agli inquirenti preziose e minuziose informazioni, utili a ricostruire intrighi ed omicidi che hanno segnato gli anni in cui era il clan che aveva fondato a gestito insieme ai suoi fratelli a tenere sotto scacco Napoli e provincia.
Patrizia Ippolito, detta “a patana” è la moglie di Vincenzo Sarno, fratello di Giuseppe, ed è stata una delle prime donne-boss della storia camorristica napoletana. Quando il marito fu arrestato, prese il suo posto all’interno del clan. Anche la Ippolito, come il cognato, fu arrestata dopo un periodo di latitanza, in quanto ricercata per associazione mafiosa. Era nascosta nell’appartamento di suo fratello, insieme alla moglie di Ciro Sarno, nel Rione de Gasperi di Ponticelli. Secondo gli inquirenti, Giovanna Confessore e Patrizia Ippolito avevano un ruolo delicato nella organizzazione mafiosa, avendo assunto e mantenuto il controllo di tutte le attività illecite del clan, dopo l’ arresto delle figure di spicco della cosca.
Tra faide, pentiti, e arresti, infatti, il clan provò a rimanere in piedi, sorretto da un manipolo di ‘guaglioni’ sotto le direttive di Salvatore Tarantino, mentre proprio “a patana” era la mente della cosca. Tarantino muore in un agguato, mentre la Ippolito, come detto, poche ore dopo quell’omicidio, viene tratta in arresto.
La Ippolito, non fu portata in carcere, ma in un luogo protetto. Fino all’istante prima, gestiva gli affari dei Sarno mentre Tarantino guidava il gruppo di fedelissimi con i quali cercava di riconquistare gli spazi perduti.
Giuseppe Sarno e Patrizia Ippolito sono entrati a far parte di un programma di protezione che, secondo quanto stabilito dalla legge n.82/91, consiste in una serie di procedure di tutela, di assistenza e di recupero sociale che assicurano al collaboratore di giustizia e ai suoi familiari di vivere in condizioni di massima sicurezza e di ricostruire un vero e proprio progetto di vita. L’iter include la creazione di un’identità fittizia, ovvero, “i documenti di copertura” e quindi il cambiamento delle generalità, oltre a tutela ed assistenza, – compresa quella legale – misure alternative al piano di detenzione e il reinserimento sociale al termine del piano di Protezione. Proprio mentre si trovano in quest’ultima fase, dunque, i due hanno dato ampia prova del loro finto pentimento, sbeffeggiando palesemente lo Stato e la legge italiana, preannunciando perfino il loro ritorno sulla scena camorristica napoletana.
“Un bacio a tuo fratello“: esordisce così Peppe Sarno, nel corso della diretta su facebook partita dal profilo di Patrizia Ippolito, rivolgendosi alla sorella di Vincenzo Pace, il 47enne luogotenente di Emanuele Cito, ucciso in un agguato in via Rossi Doria nell’aprile del 2015. Emanuele Cito, dopo il declino dei Sarno, tentò “la scalata al potere” e attualmente si trova in carcere. L’ex boss del Rione De Gasperi aggiunge: “verranno i momenti belli, non ti preoccupare“.
Giuseppe Sarno, consapevole di quanto quel modus operandi non fosse confacente al suo status di collaboratore di giustizia, afferma: “Mo’ chiamano le guardie, dicono: guardate, andate a vedere.. a Patan, o’ Pepp’”
“A Patan e o Pepp’ sempre insieme, sempre…” aggiunge la Ippolito, mentre entrambi sollevano il pollice verso l’alto.
“Ci stanno dicendo qualche parola?” chiede alla cognata e lei replica: “No, un’amica ha scritto sai come rosicano tutti che stiamo in diretta io e te?” E Peppe Sarno aggiunge: “Per la faccia di tutti quelli che ci vogliono male, dovete schiattare, schiattare, schiattare.”
L’ex numero uno della cosca di Ponticelli rincara la dose: “Noi fratelli Sarno ci amiamo…noi fratelli Sarno ci amiamo”, lo ripete, battendo la mano sul petto. E poi aggiunge: “Chi non vuole bene ai fratelli Sarno…” e termina la frase portando il pollice verso il basso, proprio come facevano gli antichi imperatori romani quando volevano decretare la morte di un “gladiatore”. Pronuncia messaggi subliminali, l’ex boss di Ponticelli, mentre “a patana” se la ride di gusto e poi aggiunge: “è sempre lui, non cambia mai…viva la sincerità”.
Una “performance” che ha scatenato le ire dei parenti degli ex gregari del clan Sarno, condannati a scontare pene severissime, proprio in virtù delle dichiarazioni fornite agli inquirenti da Giuseppe Sarno e dagli altri collaboratori di giustizia della ex cosca di Ponticelli.
Ancor più furiosi ed addolorati, i parenti delle tante vittime innocenti maturate in quegli anni. Non ci stanno i parenti di coloro che, estranei alle dinamiche camorristiche, hanno perso la vita in quegli anni, solo perchè si trovavano lungo la traiettoria di un agguato voluto dal clan Sarno. Quella diretta su facebook e ancor più i contenuti esternati dai due “finti” collaboratori di giustizia rappresentano un affronto, una mancanza di rispetto, una presa in giro troppo grandi da tollerare che sbeffeggiano ed oltraggiano quelle morti e il dolore che hanno generato, oltre a sbeffeggiare lo Stato, la legge italiana e il senso di giustizia dei cittadini onesti.
Quella diretta su facebook è stato a tutti gli effetti un vero e proprio tentativo di sondare il terreno e tastare le reazioni di amici e nemici. Secondo quanto riferito da molti residenti nell’ex bunker del clan Sarno, Giuseppe Sarno, di recente, – sia prima che dopo quella diretta su facebook – sarebbe stato avvistato in più di una circostanza nel Rione De Gasperi di Ponticelli, dove sarebbe giunto per prendere parte a delle “riunioni segrete” nel cuore della notte.
Dalle parole dei due autorevoli interpreti della malavita non trapela alcuna forma di pentimento, anzi, risuona più che palpabile la nostalgia con la quale rievocano “i vecchi tempi”, oltre al vivo desiderio di “tornare a comandare”. Il “comodo” passaggio dalla parte dello Stato, oltre ad evitare il carcere, in sostanza, sarebbe l’espediente di cui si sarebbero servite le figure di spicco del clan Sarno per “punire” con pesanti condanne, maturate soprattutto grazie alle testimonianze da loro rese, molti affiliati che stavano “creando problemi”. Secondo quanto affermano “gli uomini d’onore” che hanno scontato le pene per intero senza rinnegare la camorra, quando hanno intravisto il declino della loro era, i Sarno hanno scelto la strada più comoda “per continuare a comandare sotto altre vesti”.