Castel Volturno, 16 maggio del 2008 – 20 colpi di pistola calibro 38 e calibro 9, l’ultimo dei quali alla testa, uccidono brutalmente Domenico Noviello, di 65 anni, originario di San Cipriano d’Aversa, ma residente a Castel Volturno, sul litorale casertano. L’uomo, in località «Baia Verde» gestiva, insieme con uno dei suoi tre figli un’autoscuola e si accingeva ad aprirne un’altra a Pinetamare.
I killer lo hanno atteso proprio nei pressi della rotonda della piazzetta di Baia Verde. Qualcuno gli aveva già segnalato che era uscito di casa a bordo della sua Fiat Panda. Avrebbe preso un caffè al bar e poi si sarebbe recato, come sempre, nella sua autoscuola al parco Sementini. Proprio a fianco del commissariato di polizia di Castel Volturno.
Domenico Noviello nel 2001 aveva denunciato un tentativo di estorsione da parte del clan Bidognetti. Con la sua testimonianza contribuì a far condannare il pregiudicato Pasquale Morrone, poi morto per cause naturali, e i fratelli Alessandro e Francesco Cirillo. Un genere di “sgarro” che la camorra non dimentica, quello che Domenico rese con la sua testimonianza. Ucciderlo, inoltre, voleva dire anche dare una lezione, lanciare un monito inquietante ai commercianti e agli imprenditori reticenti che ancora non avevano pagato il pizzo la camorra.
In quegli anni, erano in tanti gli imprenditori del litorale domizio che avevano avuto il coraggio di ribellarsi. Un affronto inaccettabile in un territorio in mano al clan di Francesco Bidognetti.
Uccidere Noviello è stato molto facile. Non era sotto protezione, era piuttosto abitudinario, faceva sempre lo stesso percorso, pressoché agli stessi orari e non sospettava una vendetta della camorra dopo tanti anni dalla sua denuncia.
Fino al 2003, in seguito alla testimonianza resa, Domenico Noviello aveva una vigilanza sotto casa, un sistema di tutela che era poi venuto meno. Così si era armato con regolare porto d’armi, frequentava il tiro a segno, si teneva in allenamento andando in palestra. Sapeva che prima o poi la vendetta sarebbe arrivata. Non sapeva quando, ma ciononostante non aveva cambiato la sua vita di una virgola, era solo più attento. La sua unica preoccupazione era che i familiari non venissero coinvolti nella ritorsione.
La mattina del 16 maggio 2008, come di consueto, dopo aver bevuto un caffè con la moglie, alle 7,30 sale a bordo della sua Fiat Panda diretto verso la Domiziana, per giungere a Castel Volturno. Più avanti imboccò il viale che porta a Baia Verde. Lo stavano aspettando un’auto e una moto di grossa cilindrata. Almeno 6 uomini armati, pronti ad ucciderlo. Avevano studiato il percorso che faceva Noviello già da alcune settimane. Sapevano che doveva passare di lì. Le strade a quell’ora erano quasi deserte. I negozi chiusi. Noviello rallenta, perché a terra ci sono dei dossi. Due o più sicari lo raggiungono. Lo affiancano e aprono il fuoco con pistole di grosso calibro. Noviello riesce a fermare l’auto, tenta di prendere la pistola che porta con sé, ma non vi riesce, viene travolto da una pioggia di proiettili, allora cerca di fuggire. Apre la portiera dell’auto, ma riesce a percorrere pochi passi. I killer gli scaricano addosso almeno una ventina di proiettili. Cade a terra, ormai è morto, ma il codice della camorra impone anche il colpo di grazia. Gli esplodono tre colpi alla nuca, prima di darsi alla fuga.
Nella famiglia di Domenico c’era già stato un precedente. Trent’anni prima il fratello della moglie era stato ammazzato a soli 33 anni, per lo stesso motivo.
“Da me non avranno mai un soldo perché me li guadagno col sudore della mia fronte”, rispondeva Domenico a chi gli chiedeva di piegarsi alle dinamiche imposte dalla malavita locale per “campare quieto”.
Nell’ottobre del 2014 Giuseppe Setola diventa collaboratore di giustizia e con le sue dichiarazioni concorre a far luce anche sull’omicidio dell’imprenditore Domenico Noviello.
«Pochi minuti dopo l’omicidio Noviello venne da me Massimo Napolano e mi diede un bacio in bocca dicendo che il delitto era stato fatto. Massimo Alfiero mi disse che avevano festeggiato il delitto con Francesco Cirillo che aveva stappato una bottiglia di champagne; questa era un’usanza del clan dei Casalesi». Cirillo fu condannato nel 2001 a sei anni di carcere per estorsione proprio in seguito alla denuncia presentata da Noviello.
«Ho deciso di far uccidere Noviello prima di tutto perchè aveva fatto prendere sei anni a Francesco Cirillo, quindi perchè il clan in quel periodo stava inguaiato, non avevamo di che mangiare, così dovevamo uccidere un imprenditore che aveva denunciato per costringere anche gli altri a pagare.
Così è avvenuto, e abbiamo fatto centinaia di estorsioni. Anche Michele Zagaria ci pagava».
«Non ce la faccio più con questa malavita, mi voglio fare tutti i sette ergastoli e voglio chiedere scusa ai Noviello.
Una persona che denuncia come fece Domenico Noviello fa bene. Io ho sempre visto benissimo – ha affermato Setola nel corso della sua testimonianza – sparavo come un pazzo, come facevo a sparare se non vedevo».