Carmine D’Aponte, responsabile dell’omicidio della moglie Stefania Formicola, aggravato dai maltrattamenti, è stato condannato all’ergastolo. La donna di 28 anni fu uccisa all’alba del 19 ottobre del 2016 a Sant’Antimo, comune della provincia di Napoli, con un colpo di pistola al cuore. A sparare contro la donna il colpo mortale fu il marito dal quale si stava separando. La sentenza è stata emessa dal gup Daniele Grumieri del Tribunale di Napoli Nord, al termine del processo che si è svolto con rito abbreviato.
Una sentenza importante, seppure inaspettata dai parenti della 28enne che non speravano in una condanna così dura. “Questa volta è stata fatta veramente giustizia. Lui è rimasto impassibile, – ha affermato la cognata di Stefania – non ha mostrato nessun segno di pentimento, neppure davanti a una sentenza così dura”.
Stefania aveva già denunciato cinque volte il marito. Era andata via di casa, rifugiandosi dai suoi genitori. Ma non è bastato per fermare la furia omicida dell’uomo che no accettava la separazione. Alle prime luci dell’alba del 19 ottobre 2016, Carmine d’Aponte, muratore di professione, già noto alle forze dell’ordine, si è presentato sotto casa del suocero e ha ucciso Stefania, madre di due figli piccoli rimasti orfani. La 28enne lavorava come donna di pulizie e abitava a San Marcellino, nel Casertano.
L’omicidio avvenne in via Plutone, nella periferia a Sant’Antimo, all’interno dell’auto dell’uomo, che è stato arrestato. D’Aponte, che ha chiamato i soccorsi quando era ormai troppo tardi e ha aspettato l’arrivo dei carabinieri, ha centrato la vittima con un colpo di pistola all’addome.
«Alla mia morte, qualunque ne sia la causa, mio figlio deve essere affidato a mia madre e mio padre e in caso di loro morte a mia sorella Fabiana»: firmato Stefania Formicola. Già il 28 aprile del 2013 Stefania aveva paura di morire e con una lettera scritta su un foglio a quadretti chiedeva che la sua creatura fosse allevata dai genitori. Poi aveva avuto un altro bambino, ma l’ansia non era svanita, anzi. Era spaventata, Stefania, da quello che avrebbe potuto farle suo marito. Carmine la tormentava, la picchiava, la minacciava arrivò a puntarle una pistola in faccia. Stefania decise di andar via, per porre fine a quell’inferno, ma la fuga non è bastata a salvarla da una morte annunciata.
Si erano conosciuti attraverso un sito internet, poi avevano deciso di fidanzarsi e di sposarsi, anche se lui aveva già una figlia da una prima compagna. Poco dopo il matrimonio era nato un bambino, ma presto le cose avevano cominciato a non andare bene: la gelosia di Carmine e la precarietà economica avevano trasformato la vita di Stefania in un calvario. Lui, che lavorava come stuccatore, aveva trovato solo lavoretti in nero. Allora era intervenuto il suocero che aveva aperto un bar per farci lavorare il genero, ma gli affari non erano mai decollati. E giorno dopo giorno i litigi in famiglia avevano continuato a ripetersi sempre più insistenti, sempre più feroci. Carmine la picchiava, la maltrattava, poi si metteva in ginocchio e chiedeva perdono. Un copione visto tante, troppe volte. Lei subiva, piangeva, ma non denunciava. Aveva paura, ma non si rivolgeva alle forze dell’ordine perché sapeva come sarebbe finita se lo avesse fatto.
Fino a quando, una quindicina di giorni fa prima del delitto, Stefania, che abitava in un appartamento nello stesso parco, si era presentata alla porta dei genitori e ha trovato la forza e il coraggio necessari per raccontargli quello che accadeva tra le mura domestiche. Il padre era andato a raccontare l’accaduto ai carabinieri di San Marcellino, ma senza formalizzare una denuncia.
Carmine, però, non si era arreso, dopo qualche giorno aveva bussato alla nostra porta, si era inginocchiato e aveva chiesto scusa. Io gli avevo risposto di rivolgersi all’avvocato. Era mio dovere difendere mia figlia. Così i genitori della donna avevano chiamato i carabinieri che avevano allontanato il giovane, ma non è bastato a salvare la vita a Stefania.