Maria Grandulli è una delle tante donne di camorra di Ponticelli, quartiere periferico di Napoli, a due passi dal Vesuvio, il vulcano che tiene sotto scacco la vita delle persone adagiate ai suoi piedi. Eppure, sprezzanti del pericolo che incombe, una discreta percentuale di quella stessa popolazione, sceglie di vivere servendo la camorra, quindi, sfidando la morte ogni giorno.
La Grandulli balza agli onori della cronaca nell’ambito dell’operazione Ponticelli Liberata contro il clan D’Amico nel Rione Conocal: sono 38 le donne indagate su 89 richieste cautelari eseguite. Decine gli arrestati che scelgono di collaborare con la giustizia e tra loro c’è Maria Grandulli, ex cognata di un pentito del clan De Micco, Domenico Esposito.
La donna ha raccontato ai magistrati di quando vendeva droga e di quando incinta di 5 mesi fu minacciata con una pistola che le fu puntata alla gola. Era il 2014 e il quartiere era animato dalla faida tra i D’Amico e i De Micco. La donna per lunghissimo tempo ha lavorato nelle piazze di spaccio insieme alle sorelle per conto dei D’Amico, “i fraulella”, questo il soprannome del boss dell’omonimo clan che le giovani reclute si facevano tatuare per testimoniare la loro fedeltà al sodalizio criminale al quale erano affiliati.
La Grandulli tesseva rapporti con le forze dell’ordine: aveva il numero di cellulare di un carabiniere della stazione di via Bartolo Longo al quale chiedeva gli spostamenti delle pattuglie e si serviva di quella preziosa amicizia per far arrestare tutti i responsabili delle piazze di spaccio della famiglia rivale: i D’Amico.
La donna, secondo il gip «è un’osservatrice e una narratrice privilegiata delle attività criminali del gruppo». Si è pentita nel 2014 ed ha raccontato molti dei retroscena che sono serviti per l’emissione della misura cautelare. «Sono la cognata di Domenico Esposito detto “il cinese”. Quando è iniziata la guerra tra i De Micco e i D’Amico i miei capi non volevano passare con i “Fraulella” perché la loro droga era di cattiva qualità. Erano quindi disposti a pagare la settimana, inteso come pizzo, ma non a rifornirsi – racconta la donna in un verbale del novembre del 2014 -. Da quando mio cognato si è pentito sono iniziati problemi con i De Micco e in un’occasione Salvatore De Micco mi mise una pistola in gola quando ero incita al quinto mese. Sono sicura che non mi ha riconosciuta sennò mi ammazzava”.
Domenico Esposito, detto “o’ cinese”, è il primo gregario del clan De Micco a passare dalla parte dello Stato. Quando fu arrestato, nell’aprile del 2013, Domenico Esposito, aveva 30 anni e fu accusato del reato di porto abusivo di armi, porto abusivo di munizionamento e ricettazione. “O’ cinese” è stato rintracciato dai poliziotti nelle vicinanze della sua abitazione in via Vera Lombardi. Indosso l’uomo teneva una pistola completa di munizioni.
Nel giugno del 2013, in via Argine, un commando di fuoco composto da 7 affiliati al clan De Micco esplose diversi colpi d’arma da fuoco contro due donne e un uomo imparentati con quella che all’epoca dei fatti era la convivente di Esposito. Si trattò di un atto intimidatorio voluto per indurre i familiari a collaborare con il clan, affinché gli rivelassero dove si nascondeva “o’ cinese”. Solo per una fortuita fatalità, quel giorno, non ci scappò il morto.
Si deve all’ex gregario dei Bodo ora collaboratore di giustizia, in contemporanea alla decisione di abbandonare i vecchi amici, la scoperta e il sequestro di un arsenale del clan De Micco. Allora infuriava la guerra tra i De Micco e i D’Amico per la gestione delle piazze di droga in varie zone di Ponticelli. Una faida che provocò, tra l’altro, il duplice omicidio Castaldi-Minichini, su cui proprio iEsposito fece luce.
Il 16 maggio 2013, nel riconoscere fotograficamente Luigi De Micco, Domenico Esposito ne ha delineato il profilo: «Noi tentavamo sempre di proteggerlo, evitando di esporlo a controlli insieme a noi, ma era organico al nostro gruppo. Partecipava alle riunioni in cui prendevamo le decisioni, ma non alle fasi operative. Era invece presente il giorno prima del mio arresto quando cercavamo qualcuno dei “Fraulella” da prendere.
Inoltre era lui a tenere la cassa del clan, per le macchinette e il gioco online, che lui gestiva via internet da casa sua ricevendo le puntate per telefono. Ho personalmente visto le ricevute delle giocate».
Le dichiarazioni di Esposito ricostruirono anche il legame che intercorreva tra la camorra ponticellese e l’ex ultrà del Napoli, Gennaro De Tommaso, alias “Genny ‘a carogna”, proprio nel periodo in cui quest’ultimo finì sotto i riflettori per quanto accaduto allo Stadio Olimpico di Roma, dopo gli scontri tra una frangia di tifosi napoletani e l’ex ultrà romanista, Daniele De Santis, prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, in cui perse la vita il tifoso azzurro Ciro Esposito.
Il collaboratore di giustizia dichiarò che “La droga i clan di Ponticelli la compravano da un tale Genny la carogna che dovrebbe essere di Forcella. Per la consegna era utilizzata una Renault Scenic modificata, che ci veniva lasciata parcheggiata con le chiavi presso il cimitero di Ponticelli. Noi mandavamo a ritirare la macchina che poi restituivamo”.
La posizione di Esposito davanti alla legge, tuttavia, vacilla clamorosamente, quando il pm presenta dinanzi al giudice la lettera che “o’ cinese” inviò al giovane ras Marco De Micco, alias “Bodo“, e consegnata nelle sue mani dalla moglie.
Una lettera che scrisse all’inizio del suo pentimento.
“Mi hanno messo i vermicelli in testa, dicevano che volevate uccidermi”, si legge nella missiva che da un lato esprimerebbe una sorta di cambiamento di vita e di voler tagliare per sempre con la malavita, dall’altro sembra accogliere un momento di riflessione.
Domenico Esposito implorava il perdono per la sua scelta di collaborare con la giustizia poiché la scelta sarebbe nata dopo le confidenze di Roberto Boccardi, un altro affiliato che avrebbe rivelato ad Esposito l’intenzione dei De Micco di ucciderlo.