“Le mamme della camorra”: questo l’appellativo che ho attribuito a quelle donne, interpreti, tutrici e promotrici della malavita e dei suoi ideali, che ho incontrato più volte e in più isolati del Rione De Gasperi di Ponticelli. Un rione che ha accolto e protetto le gesta del clan più efferato della storia del quartiere: i Sarno.
Un clan nato alla fine degli anni ’80 quando, al termine della faida tra i gruppi della Nuova Famiglia e la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, le varie organizzazioni malavitose si spartirono le zone entrando spesso in conflitto tra loro, generando altre guerre di camorra.
A Ponticelli, Giuseppe, Ciro, Vincenzo, Luciano e Pasquale Sarno fondarono l’omonimo clan che proprio nel Rione De Gasperi imbastì il suo solido bunker. Dalla prima guerra con i clan dell’Alleanza di Secondigliano, nacque l’affiliazione alle famiglie Mazzarella e Misso che portò alla costituzione del cartello criminale che riuscì a controllare quasi tutta la città. La seconda guerra, invece, nacque in seguito alla scissione di Antonio De Luca Bossa, detto “Tonino ‘o Sicco” che dopo essersi fatto le ossa come killer del clan, decise di fondare il suo sodalizio criminale autonomo entrando, così, in conflitto con gli stessi Sarno.
Il clan Sarno fondò un vero e proprio “Stato criminale”, autonomo e indipendente, un autentico “impero del male”. Il boss Ciro Sarno, detto ‘o Sindaco, è una delle figure tutt’oggi più compiante del clan: così denominato perché fu lui ad assegnare le case popolari all’interno del rione-bunker del clan alle famiglie terremotate. I legittimi assegnatari designati dal comune di Napoli vennero messi alla porta per lasciare l’appartamento alle famiglie degli affiliati. Anche le famiglie che non erano direttamente affiliate, si sentivano il dovere di dimostrare riconoscenza e fedeltà al clan, vuoi per reale gratitudine, vuoi per il timore di vedersi buttare fuori di casa per cedere il posto ad altre famiglie più “meritevoli” e così, quando le forze dell’ordine entravano nel rione, tutti si sentivano in dovere di affacciarsi al balcone per gettare contro uomini e auto qualsiasi tipo di oggetti. Le imprecazioni e gli insulti si sprecavano e, soprattutto, un voluminoso cordone umano si parava tra gli uomini in divisa e i camorristi che erano andati a prelevare, per impedirne l’arresto. “Michele, Michele”: adulti e bambini, quando vedevano le auto blu aggirarsi intorno al rione, urlavano così, perché san Michele è il patrono della polizia di Stato.
Oltre che a Ponticelli, i Sarno erano attivi nella provincia ad est di Napoli, nei comuni di Somma Vesuviana, Cercola, Sant’Anastasia e San Sebastiano al Vesuvio, dove entrarono in guerra con le famiglie locali, i Veneruso, gli Anastasio, i Panico, per il predominio del traffico di stupefacenti.
I Sarno controllavano tutti i traffici illeciti: droga, contrabbando, racket. E non solo. In un rapporto delle forze dell’ordine si arrivò ad ipotizzare, con un margine di possibilità piuttosto ampio, che l’organizzazione abbia gestito alcune sale-giochi e addirittura un “Bingo” tra Chiaia e Fuorigrotta, servendosi di prestanome incensurati. Diversi gli affari controllati e gestiti dai Sarno anche nel quartiere Mercato e nei Quartieri Spagnoli.
Dalla periferia orientale di Napoli alla riviera di Chiaia, passando per i Quartieri Spagnoli, fino a Fuorigrotta. In poco più di un anno, secondo investigatori e inquirenti, il clan Sarno di Ponticelli avrebbe conquistato grosse fette di territorio grazie ad alleanze strategiche.
Nelle viscere del Rione De Gasperi, i Sarno nascondevano un vero e proprio tesoro sotterraneo al quale si accedeva sollevando un tombino, situato – forse non a caso – accanto alla sede associativa della Madonna Dell’arco: armi di qualsiasi tipo, oggetti pregiati, perfino un carrarmato era custodito sottoterra. Almeno così si narra.
Il 27 luglio 2009, le fondamenta del clan iniziano a scricchiolare: vengono arrestati 5 affiliati del clan, Antonio Sarno (‘o Tartaro) primogenito del capoclan Ciro, Salvatore Sarno (Tore ‘o Pazzo) figlio del Boss Giuseppe Sarno (‘o Mussillo) , Antonio Sarno (‘o Ciacariello) cugino dei fratelli Sarno, Ciro Esposito (‘o Tropeano) e Vincenzo Cece (‘o Puorco) cognato dei fratelli Sarno ritenuti membri-vertice. Gli arresti maturarono in seguito a minacce verso la moglie (Anna Emilia Montagna) del collaboratore di giustizia Giuseppe Sarno. Il pentimento del padrino causato da divergenze avute con i fratelli (soprattutto Vincenzo) sulla gestione del clan, ha scosso gli equilibri di tutta Napoli.
Il 9 agosto 2009 si pente un altro personaggio di spicco del clan: Carmine Caniello, killer stragista, che rivela particolari importanti ai fini delle indagini circa l’omicidio di Anna Sodano, ex pentita del clan Sarno, avvenuto nel 1996.
Nella mattina di martedì 29 settembre 2009, la prima pagina di “Cronache di Napoli” recita così: “Si è pentito Ciro Sarno”. Un pentimento che sancisce il definitivo tracollo per il clan Sarno, che solo pochi mesi prima era il più influente della regione Campania.
Oggi, 8 anni dopo il declino del clan che ha tenuto Napoli sotto scacco per circa un ventennio, nel Rione-bunker del clan Sarno, regna il degrado, materiale e morale.
I parenti dei collaboratori di giustizia non contigui alla malavita sono stati inseriti in un programma di protezione, in seguito all’insorgenza di una vendetta messa a segno proprio contro “i parenti dei pentiti dei Sarno”, iniziata sul finire del gennaio 2016.
Quelle che vivono nel De Gasperi, oggi, sono “le donne d’onore” di quello che resta del clan, ovvero, le mogli dei detenuti che hanno scelto di non collaborare con la giustizia, ma di scontare le pene per intero, non rinnegando la camorra. Rivolgono parole di odio, disprezzo e condanna verso “i pentiti” e ripercorrono con nostalgia i tempi in cui il rione era controllato dai Sarno. Puntano il dito contro lo Stato e le istituzioni, loro che una bolletta della luce o dell’acqua non l’hanno pagata mai e che hanno contratto decenni di debiti con il Comune. Vivono in appartamenti ricavati abusivamente o occupati abusivamente o sottratti ai legittimi assegnatari, ottenuti pagando 10 o 20 milioni ai Sarno. A loro si che venivano corrisposti i soldi, fino all’ultima lira.
Gente che vive di espedienti e raggiri, continuando a seguire meticolosamente le regole della camorra e ringhiando con ferocia contro chi le oltraggia. Il finto divorzio: l’escamotage adottato per fingere di aver preso le distanze da quel marito camorrista, solo per farsi assegnare una casa dal comune. Tanto, quando i mariti usciranno dal carcere, chi andrà a controllare chi dorme accanto a quelle donne?
“Se ci vuoi aiutare, non devi parlare della camorra”: questo il monito delle “mamme della camorra” che abitano nel rione e che temono che ricordare chi sono e cosa hanno fatto, possa dissuadere l’amministrazione dall’assegnargli un alloggio. Il problema non è quello che scrivo, ma che scrivo, per due valide ragioni: ricordo alla gente che esiste una memoria storica e che il passato, gli errori, le brutture della camorra non terminano con gli arresti e la distruzione di un clan. Il Rione De Gasperi è la prova tangibile della devastazione che solo e soltanto il “tumore-camorra” sa generare. E, soprattutto, prima da donna e poi da giornalista di Ponticelli, scrivendo, parlando, raccontando, pronunciando a voce alta la parola “camorra”, vengo pericolosamente meno alla regola d’oro della malavita: l’omertà. E questo rischia di consegnare un esempio da seguire alle tante famiglie perbene che vivono nel rione e che seguono, supportano, ammirano e recepiscono positivamente il mio lavoro. Come ci si può aspettare che una giornalista sia omertosa? Nelle terre di camorra nulla è scontato e “il nemico” è quello che viene meno alle regole del clan. Lo Stato e le sue leggi, “le guardie”, soprattutto loro, sono i nemici più acerrimi, anche più degli affiliati ai clan rivali. E anche i giornalisti, se accendono i riflettori sulla verità.
Pochi mesi dopo, il marito di quella “mamma della camorra”, ha finito di scontare la sua pena ed è stato scarcerato. Lui che è stato un interprete della “camorra vera” e che non ha mai rinnegato “il sistema”, è tornato a prendere il suo posto tra i relitti delle case murate del Rione De Gasperi. E, allora, ho ben inteso che valore attribuire a quell’esortazione consegnatami in tempi non sospetti da quella che solo per il nostro Stato e solo sulla carta è la sua ex moglie.
La mamma del Boss Emanuele Cito, detto Pierino, più e più volte, ha sbraitato contro di me, parole difficili da decifrare. L’ultima volta, in presenza di due dipendenti del Comune di Napoli, mentre ero intenta a filmare il fiume di liquami che scorre sotto le fondamenta del rione, quella donna ha urlato che suo figlio lo hanno arrestato per colpa e a lei hanno tolto pure il pacco della Caritas. E, sempre per colpa mia, il comune non le assegnerà la casa, perché “ho scritto che è la mamma di un boss”. Eppure, nel maggio del 2016, quando degli uomini incappucciati fecero irruzione nel Parco Merola e speronarono la vettura della moglie di Cito fino al cancello d’ingresso per poi dargli fuoco, Pierino si guardò bene dal lasciare la sua abitazione per scendere a spegnere le fiamme: sapeva che quel raid incendiario voleva essere una trappola per indurlo a lasciare l’appartamento in cui si era rintanato da quando il clan De Micco lo aveva condannato a morte e, quella sera, c’erano dei killer appostati per ucciderlo, aspettavano solo che scendesse in strada per aprire il fuoco. Pierino si affacciò al balcone e urlò contro i suoi aguzzini: “Se questa è la malavita voglio fare il pentito.. viva la PS, viva l’omertà!” Poche settimane dopo, nell’ambito dell’operazione Delenda, tra i 94 arrestati, spiccava anche il nome di Emanuele Cito, al quale le forze dell’ordine, “l’altro Stato”, hanno salvato la vita, arrestandolo. Eppure, neanche davanti a questo, quella “mamma della camorra” è riuscita a dimostrare un minimo di riconoscenza né ha saputo rivedere i suoi principi e le sue regole.
Tutte “le mamme della camorra” del rione, si affannano a spiegare che nel rione, ormai, “non c’è più niente”, ovvero, non si delinque più. Tuttavia sono moltissime le famiglie che campano spacciando droga, ma anche a questo c’è una “lecita” spiegazione: “anche noi dobbiamo mangiare”. E il vero problema è proprio questo: chi nasce e cresce istruito nel rispetto del verbo della camorra, molto spesso, non conosce alternative e non sa vivere in altri modi.
La moglie del “capo” della piazza di spaccio più grande e quotata del rione, quella che da due anni esiste nell’Isolato 2, ogni volta che pubblico un articolo in cui “parlo di loro” e dei reati che quotidianamente commettono alla luce del sole, chiede al marito: “ma la giornalista che vuole da noi?”
L’errore è alla base, perché la riducono ad una “questione personale”. Non vogliono o non sanno capire che il mio lavoro è raccontare i fatti, a prescindere da chi li compie.
Per le “mamme della camorra” del Rione De Gasperi il problema non è che si delinque, ma che la giornalista racconta che la malavita, nell’ex roccaforte dei Sarno, esiste ancora.