Quella di Carmela Ricciardi è la storia di una donna che si è persa tra le insidie della malavita, ma poi ha avuto la forza e la lucidità necessaria per ritrovarsi. Tutti la chiamano Lilletta, dentro e fuori dal Rione De Gasperi di Ponticelli, quello che un tempo fu il bunker del clan Sarno e che oggi è uno dei tanti contesti di periferia in balia del degrado e delle piazze di spaccio.
Lilletta è cresciuta lì con la sua famiglia ed è lì che vive ancora, nell’isolato 1, con la famiglia che si è creata. Ammesso che possa definirsi vita quella che si svolge in una casa di 35 mq abitata da 5 persone: Lilletta, il suo compagno e 3 figlie.
I disagi sono tanti: dormono tutti in un’unica stanza da letto, con tutti i limiti e i disagi che questo implica per l’intimità di tutti i membri della famiglia. L’appartamento spesso è soggetto ad infiltrazioni e quindi, soprattutto in inverno, è particolarmente umido e lo spazio è davvero poco.
Lilletta spiega che una delle tante difficoltà alle quali va incontro nella vita di tutti i giorni è quella di sistemare i panni di tutti i componenti della famiglia in un unico armadio, in quanto non c’è lo spazio materiale per aggiungere nemmeno un’anta. Ha paura di utilizzare i cassetti sottoletto, perchè pensa che in caso di terremoto o di altre sciagure, gli impedirebbero di trovare riparo sotto al letto.
“In verità ci penso di continuo e dopo il crollo della palazzina a Torre Annunziata prima e del terremoto di Ischia poi, è diventata quasi un’ossessione. Quando mi metto a letto, mi guardo intorno e mi chiedo come farei a mettere in salvo me e le mie figlie, se il palazzo dovesse crollare mentre dormiamo. Un pensiero che per chi vive in un palazzo che sta in piedi da più di 50 anni e che non è mai stato ristrutturato, non è così stano o assurdo. La cosa che mi addolora di più è che le mie bambine non possono avere una stanza tutta loro per giocare nè un cortile, un parco, delle giostre. Il piazzale sotto casa è pieno di buche e molto spesso capita che i bambini inciampano e cadono. Questi bambini non hanno alternative, sono abbandonati e costretti a vivere e subire il degrado del rione che li obbliga a crescere come “bambini di serie b”. Vorrei iscrivere mia figlia ad una scuola di danza, ma non me lo posso permettere, la retta è troppo alta. Le mie figlie non possono fare altro che giocare nella nostra camera da letto con le bambole.”
La priorità di Lilletta, oggi mamma e casalinga innamorata della sua famiglia, sono proprio loro: le sue figlie ed è sempre stato così. Anche se, da giovane, dopo aver messo al mondo la sua prima figlia, per amore di quella figlia, sostiene di essersi spinta oltre e di aver fatto quelle che lei definisce “e cos’ malament'”, ovvero, i reati.
“Ho fatto un sacco di sbagli: mantenevo la droga in casa. – ammette Lilletta – Ho iniziato verso la fine del 2001, a febbraio del 2002 mi ero già tirata fuori. Avevo consegnato la borsa con la droga e ho spiegato che non me la sentivo di continuare, perché se è vero che l’ho fatto solo per poter crescere mia figlia, è anche vero che pensavo agli altri figli che si rovinavano per colpa della droga che passava anche per le mie mani. Inizialmente mi dicevo: “se non lo faccio io, comunque trovano un altro che lo fa, non li salvo quei ragazzi se mi tiro fuori”, ma poi il desiderio di una vita normale ha prevalso. In casa mi erano rimasti 200 grammi di droga, quelli che hanno trovato quando sono venuti a farmi la perquisizione, pochi giorni dopo e tanto è bastato ai carabinieri di Napoli per arrestarmi con l’accusa di detenzione e spaccio.
Da incensurata sono stata condannata a 4 anni: in appello mi hanno scalato un anno, mentre 1 anno e mezzo l’ho scontato nel carcere femminile di Pozzuoli e poi ai domiciliari, oltre all’ulteriore riduzione che ho ricevuto grazie all’indulto.
Per crescere mia figlia ho fatto sbagli su sbagli, ma sono stata anche portata a farlo da un contesto che non ti offre occasioni nè l’opportunità di un posto di lavoro. Il lavoro che ti danno è a nero, più sanno che hai problemi e che hai bisogno e più se ne approfittano. Mia madre non lavorava, non aveva niente, non poteva aiutarmi. Quando avevo 13 anni ho perso un fratello, investito da un’auto a 14 anni, quando ero in carcere a Pozzuoli arrivarono i soldi del risarcimento del danno per la sua morte, quindi quando sono uscita non avevo più bisogno di delinquere.”
Dopo 10 anni, durante il blitz che seguì le prime dichiarazioni dei”pezzi da 90″ dei Sarno che divennero collaboratori di giustizia, nel rione arrestarono tutte le persone penalmente perseguibili per reati di associazione.
Ad accusare Lilletta di associazione a delinquere non sono i collaboratori di giustizia, gli inquirenti dimostrano la sua vicinanza al clan Sarno basandosi sulle intercettazioni telefoniche del 2001-2002: “mi hanno imputato l’articolo 416 e il 74, mentre il 416 è caduto, mi hanno fatto scontare il 74, condannandomi a 8 anni in primo grado, in appello mi hanno ridotto la pena di 4 mesi, quindi la condanna definitiva è stata 7 anni e 8 mesi. Tre anni pieni li ho scontati nel carcere di Latina, poi mi hanno scalato gli anni di carcere già scontati in passato e i due anni di indulto e così ho pagato anche quest’altra condanna, se “altra” si può definire, considerando che il reato che mi è stato imputato è sempre lo stesso ed è quello per il quale avevo già pagato.
Quando sono uscita, mi sono creata un’altra famiglia e ho avuto altre due figlie con un altro compagno.
La prima figlia l’ho cresciuta da ragazza madre, seppure porta il cognome del padre, lui non è mai stato con me, con noi. Si è fatto un’altra vita e non abbiamo più rapporti.”
Tu eri consapevole di quello che stavi facendo, cosa provavi quando realizzavi che il tuo “lavoro” era mantenere la droga?
“Non ero felice di fare quello che facevo, sapevo che stavo facendo una cosa sbagliata. Le persone che si vantano perchè commettono reati penso che lo fanno perché non sanno a cosa vanno incontro, non riescono a capire quanto male fanno e che quello che fanno non fa bene nemmeno a loro. Nessuno mai se ne è visto bene di questa vita. E’ lo Stato che non dà la possibilità di campare dignitosamente a chi vive in questi contesti, sono poche le scelte che ti rimangono, seppure sai che è sbagliato.”
Che esperienza è il carcere?
“Ne ho visti un bel po’. Sono stata a Pozzuoli e a Latina, oltre che a Santa Maria Capua Vetere in appoggio, quando c’erano le udienze dei processi: la vita in carcere è maledetta. Immagina 10 persone – se non c’è l’affollamento – che vivono in una stanza con un bagno. Quello di Latina era un carcere di massima sicurezza, quindi c’erano due persone in ogni cella, parliamo di un carcere costruito per i terroristi, quindi di massima sicurezza. Non vedevo nemmeno la luce, quando sono uscita, dopo 3 anni, la luce del sole mi faceva male agli occhi. C’era una rete e poi sbarre, non riuscivamo a vedere fuori, il cielo per noi era sempre grigio. Invece, a Santa Maria, le celle erano solo con le sbarre e quindi mi lacrimavano gli occhi e non riuscivo a tenerli aperti, solo se guardavo il riflesso del sole a terra mi lacrimavano gli occhi.
La seconda condanna è stata più dura, perchè non lo aspettavo di essere di nuovo arrestata, per me avevo chiuso i conti con gli errori del passato, avevo già scontato il mio reato e invece, dopo quasi 10 anni, ho pagato di nuovo per lo stesso reato, anche in un regime di detenzione molto più duro. Sento di aver pagato due volte lo stesso errore. La seconda volta mi hanno fatto pagare l’affiliazione. La prima volta mi hanno dato solo la detenzione di droga.”
La distinzione alla quale si appella Lilletta è basata sulla diversa collocazione delle varie pedine all’interno di un’organizzazione criminale: lei è stata arrestata perchè, per conto dei Sarno, manteneva la droga, ma non si sentiva parte del clan.
“Tutta Napoli, secondo questo principio, dovrebbe essere arrestata – chiarisce Lilletta – o meglio, chi fa la malavita è sempre alle dipendenze di qualcuno “più grande” di lui, quindi, se si ragiona così, tutti quelli che commettono questo genere di reati dovrebbero avere pene più severe. Con il rito abbreviato ho avuto la riduzione di 1/3 della pena. E non ho mai spacciato, ho solo mantenuto la droga per circa un mese. Quando sono uscita di galera, mentre stavo stirando, la polizia venne a perquisirmi la casa, ma non trovarono niente. Le forze dell’ordine sapevano che dopo aver scontato la prima condanna ero pulita.”
Cosa ti hanno tolto gli anni trascorsi in carcere?
“Durante i tre anni scontati in un carcere di massima sicurezza, non mi sono data pace. Mia figlia aveva 12 anni quando sono stata arrestata la seconda volta ed è stata male per questa cosa. La prima volta aveva 3 anni, è stato diverso. Si è vista sola, senza genitori, è stata con mia madre. Mia figlia era in vacanza a Scauri quando fui arrestata la seconda volta, lo scoprì guardando il telegiornale. Quando venne a farmi visita nel carcere di Pozzuoli, aggrediva le guardie e poi mi abbracciava e diceva che dovevo uscire, perchè il mio posto non era lì e che non avevo fatto niente per meritare il carcere. Quello che mi è stato tolto, che è stato negato a me e mia figlia, nessuno può ridarcelo: ha sofferto tanto per la mia assenza e quel dolore l’ha portata a darmi una colpa. Vedo che dentro si porta una rabbia, per quello che le è stato tolto in un momento delicato della crescita. E’ come se non la conoscessi più e soprattutto i primi tempi è stato faticoso ricostruire un dialogo, un rapporto. Oggi ha 20 anni e fa la parrucchiera e sono molto orgogliosa della donna che sta diventando. Sto cercando di crescere le mie figlie proteggendole dal sistema che ha rovinato la mia vita, vorrei che facessero tesoro dei miei sbagli e guardando la mia primogenita penso che ci sto riuscendo: è una ragazza piena di valori e di sani principi. Il nostro rapporto conflittuale non nego che mi ferisce tantissimo, quando discutiamo continua a rinfacciarmi la mia assenza e ogni volta è come se mi desse una coltellata in una ferita che anche per me sanguina ancora.”
Si commuove, Lilletta, mentre parla della figlia. E’ l’unico frangente in cui è costretta a cedere all’emozione: “Sono vulnerabile solo davanti al dolore per mia figlia. Quel dolore io me la porto dentro, così come lei se la porta dentro, anche se so che mi sento più in colpa di come mi dovevo sentire. Soffro soltanto quando il male lo sento addosso ai miei figli. Sono uscita dal carcere che stavo male psicologicamente, ho cercato di riprendermi, ma nonostante siano trascorsi 5-6 anni, solo di recente ho sentito di essere tornata. La paura che potesse succedere qualcosa a mia figlia mentre ero in carcere mi ha cambiato. Adesso in questa casa riusciamo a farci qualche risata in più, anche se non abbiamo da mangiare e tiriamo avanti solo con lo stipendio del mio compagno, il sorriso non manca mai.”
Di recente è accaduto qualcosa che ha ulteriormente complicato le cose: “Sui social è stato pubblicato un video dal titolo “le donne della camorra” e di certo vedermi tirata in ballo tra donne che hanno fatto “la camorra vera” non ha aiutato né me nè mia figlia. In pratica, era un filmato in cui si vedevano tutte le donne arrestate non solo in quel blitz nel Rione De Gasperi in cui venni arrestata pure io, ma anche in quelli avvenuti in altri quartieri di Napoli e nel casertano. La cosa che mi ha fatto proprio male sono stati i commenti, gli insulti che la gente ha scritto sotto quel post. Qualcuno mi augurava perfino la morte. Mi sono vergognata e mi sono sentita male. Sento che quello sbaglio lo sto pagando ancora a un prezzo troppo alto. Non sono mai stata una “donna-boss”, ma una ragazza che non ha mai negato di aver fatto degli sbagli, ma che li ha fatti perché si è persa. Quando mi sono ritrovata era troppo tardi, ma ho pagato abbondantemente i miei errori ed essere paragonata a persone che hanno ucciso o che hanno ordinato la morte di tante persone e che hanno compiuto molti altri reati, mi ha davvero fatto stare male. Voi giornalisti avete un grande potere, quello di raccontare la verità: cercate di sfruttarlo sempre nel modo più giusto e nel rispetto della verità, senza gettare fango sulle persone in maniera immotivata. Anche la vostra penna è un’arma e molte volte sa procurare ferite che fanno più male dei colpi di pistola.“