Rosarno (Reggio Calabria), 20 agosto 2011 – La storia della 31enne Maria Concetta Cacciola, detta Cetta, sembra tratta da un film dal finale drammatico che sfocia in un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per il reato di maltrattamenti in famiglia, aggravati dalla morte, a carico del fratello di Cetta Cacciola, Giuseppe, del padre Michele e della madre Anna Rosalba Lazzaro.
La tesi degli inquirenti è che la collaboratrice di giustizia, che si è suicidata ingerendo acido muriatico, abbia deciso di compiere l’estremo gesto proprio a causa dei presunti maltrattamenti fisici e psicologici subiti in famiglia. Maltrattamenti che l’avevano indotta a fuggire collaborando con la giustizia, salvo poi ritornare per amore dei tre figli e per una complessa situazione di sensi di colpa e rimorsi che la giovanissima madre provava.
La famiglia Cacciola è legata alla ndrangheta. La stessa Cetta lo dichiarerà agli inquirenti e a un uomo conosciuto su una chatline virtuale. L’ipotesi sarebbe confermata, oltre che dai precedenti penali del padre e del fratello, dalla parentela con la cosca Pesce-Bellocco (la pentita Giuseppina Pesce è cugina di Cetta Cacciola), e dal fatto che il marito della donna Salvatore Figliuzzi stava scontando una pena in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso: è stato arrestato nel 2002, nell’ambito dell’operazione ‘’Bosco Reale’’.
‘’…a 13 anni sposata per avere un po’ di libertà… credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l’amo, e tu lo sai… ….Non abbatterti perché non lo farai capire ai miei figli datti forza per loro, non darglieli a suo padre non è degno di loro…’’. Questo scrive Cetta Cacciola, riguardo al marito in una straziante lettera alla madre. Una relazione di cui si pente: una ‘’fuitina’’ di gioventù risultata in un matrimonio prematuro, e in tre figli avuti giovanissima. E’ per questo che, mentre il marito è in carcere, Cetta conosce altri uomini.
La libertà di Cetta dura solo qualche anno: nel giugno 2010 a casa Cacciola cominciano ad arrivare lettere anonime che informano la famiglia del fatto che la giovane donna aveva relazioni extraconiugali con un uomo di Reggio Calabria. A questo punto scatta la repressione: la già scarsa libertà di Cetta viene ulteriormente limitata e lei costretta a non abbandonare mai la casa, e viene anche duramente percossa dal padre e dal fratello che le rompono o incrinano una costola. Non si sa se la costola di Cetta è rotta o incrinata: non le viene consentito di recarsi in ospedale per gli accertamenti, viene curata in casa dal medico di fiducia della famiglia.
Fino al maggio 2011 Cetta Cacciola è costretta a rimanere a casa, in un ambiente familiare in cui riceve continui maltrattamenti e pressioni, oltre ad essere, nelle rare occasioni in cui esce da casa, costantemente pedinata dal fratello Giuseppe.
L’11 maggio 2011, ‘’approfittando’’ del fatto che i carabinieri avessero sequestrato il motorino del figlio 14enne, Cetta si reca presso la tenenza dell’Arma a Rosarno, dove racconta per la prima volta i maltrattamenti che subisce, dichiarandosi in seguito disposta a collaborare spontaneamente nella qualità di testimone di giustizia, pur di fuggire dalla propria casa.
Nel maggio 2011, quindi, manifesta la volontà di allontanarsi da Rosarno, sottoponendosi volontariamente al programma di protezione. Nel farlo ribadisce più volte, davanti ai militari dell’arma, che se i suoi familiari avessero saputo della sua collaborazione l’avrebbero ‘’ammazzata’’. ‘’..mio fratello ha un brutto carattere ed è capace di fare qualsiasi cosa, anche di farmi sparire’’ dice ai carabinieri Cetta, temendo per la propria incolumità e forse anche per la propria vita. E’ così che da giugno a fine luglio 2011, la donna viene fatta fuggire da Rosarno, e portata in una struttura alberghiera del cosentino, dove trascorre il primo periodo della sua ‘’nuova’’ vita sotto protezione. Poi, a fine mese, viene trasferita prima a Bolzano, e poi a Genova. Ma il 2 agosto, Cetta non regge più al rimorso di aver abbandonato i figli e a quello legato al ‘’dispiacere’’ che stava dando alla madre. Telefona a casa e riferisce alla madre di voler tornare a casa, chiedendo che la famiglia andasse a prenderla nel capoluogo ligure. Così avviene, anche se la Cacciola, ancora titubante sulla decisione, lascia ai carabinieri l’indirizzo di una casa dove lei e la famiglia avrebbero fatto tappa durante il tragitto di ritorno. E’ proprio a Reggio Emilia che la donna torna indietro sui suoi passi: chiama il servizio centrale di protezione e si fa riportare a Genova.
Tornata a Genova, Cetta è ancora combattuta sul da farsi. Di certo non le giovano i continui ricatti morali della famiglia: al telefono le fanno sentire la figlia più piccola che piange, e in più ha ancora paura della reazione del fratello, pur convinta che il padre l’avrebbe perdonata.
Si sfoga così il 6 agosto al telefono con un’amica: ‘’Io non so.. io non ho l’idea.. io vorrei tornare a casa mia per i miei figli.. perché i figli non me li mandano.. non vedi che non me li hanno mandati? AMICA : Ah non te li hanno mandati i figli?
Cacciola Maria Concetta : Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita non torno più.
AMICA : Ah quindi tu .. incomp… e figli non te li hanno mandati.
Cacciola Maria Concetta : No.. no non me li hanno mandati io li ho cercati e non me li hanno dati.. hai capito?….
…..Cacciola Maria Concetta : (mia madre, ndr) Cerca di riportarsi la figlia, mio papà invece ha due cuori, la figlia o l’onore?’’.
La donna decide quindi di voler rivedere i figli, convinta della comprensione della madre, del perdono del padre e della vigilanza di questi sull’intemperante fratello.
Ma si sbaglia: il 9 agosto torna a casa per scoprire che l’unico interesse della famiglia è quello di farle ritrattare tutte le dichiarazioni rese durante il periodo di protezione. E’ per questo che Cetta viene costretta a registrare una dichiarazione nella quale dice: ”…Erano.. and.. arrivate lettere anonime, mi alzavano le mani, ti chiudevano a casa, non potevi uscire, non potevi avere amicizie. Si precisa che da un paio d’anni che… c’era ‘sta storia. Poi, da quando sono arrivate queste lettere anonime non si viveva e ero arrabbiata…. da loro. Volevo fargliela pagare, quindi la mia cosa quando sono andata, ho parlato con i Carabinieri dicendo che che io ho problemi con la… con i miei, la mia famiglia, che ho paura che mi succede qualcosa con mio padre e mio fratello Giuseppe e mio padre Michele non mi facevano uscire. Dopo qualche giorno, mi hanno detto di si che devono , e poi è arrivato un comandante. Da li è successo che mi hanno sentito, gli ho detto delle cose per arrivare allo scopo di andare via da casa. Dicevo, ho detto pure delle cose che mi sono infangata anch’io stessa, per il fatto di andarmene via da casa mia, perché quella era mia cosa: di fargliela pagare! La rabbia, poi, mi ha detto mi hanno detto di si. Dopo due giorni, sono mi hanno riconvocato in caserma sempre con la scusa della moto. Sono arrivata e c’era una macchina pronta e sono venuti due magistrati a parlare con loro. Meglio, all’inizio mi sentivo confusa… tante cose … però, poi, ho che.. che…. volevo andare via ed ero disposta a dire cose che non c’erano, che non esistevano, sempre perchè io volevo andare via e gliela volevo far pagare e liberarmi di tutta sta sofferenza e tutto. Dopo mi fa il magistrato dice:…. Perché…..Ed è successo così, no il sabato sono venuti a prendermi, mi hanno telefonato, mi hanno detto chee…. che stanno arrivando per prendermi, che che….. era scattato il piano protezione… poi mi hanno portato a Cosenza. Dopo tre giorni, sono venuti di nuovo i magistrati, tutti e due, facendo pressione su delle cose, su delle famiglie. Io, sempre perché ero presa di rabbia, dicevo… poi mettevo sempre io mio padre, mio fratello, sempre in tutto….. perché? Perchè ce l’avevo con loro e quindi gliela voler far pagare a tutti e due…..(pausa)…. nemmeno… poi li gli dicevo…. Sono an…. ritornati di nuovo dopo un altro paio di giorni. Sono stata un mese e mezzo a Cosen… un mese quasi e mezzo a Cosenza. Poi ho.. telefonato dicendo che c’erano persone, che io avevo paura, e mi voglio spostare, e da lì mi hanno portato a Bolzano…. A Bulzano io già a Bolzano avevo intenzione di tornare indietro perché mi stavo rendendo conto quello che stavo combina….. perché per rabbia dicevo cose che non c’erano. …”.
Ma il 17 agosto la donna non riesce più a reggere il peso psicologico delle pressioni: chiama i carabinieri, decisa a usufruire nuovamente del programma di protezione, cercando di concordare addirittura un metodo per allontanarsi da casa, data la costante sorveglianza dei familiari.
Cetta si allontanerà da casa soltanto 3 giorni dopo, già deceduta a causa dell’ingestione di acido muriatico, trasportata in auto dal padre al pronto soccorso dove i medici possono soltanto constatarne la morte dopo aver cercato invano di rianimarla.
I familiari della Cacciola si recano pochi giorni dopo alla procura di Palmi per consegnare un esposto contenente la registrazione con la quale la donna ritrattava tutte le dichiarazioni fatte e una denuncia nei confronti dei carabinieri nella quale la famiglia Cacciola sostiene che i militari dell’arma avrebbero sostanzialmente approfittato di una presunta situazione psichiatrica di depressione della giovane donna: al fine di trarre informazioni per altre indagini, accusano i Cacciola, i carabinieri avrebbero prospettato alla 31enne rosarnese una situazione di vita migliore.
Le tesi dei magistrati tendono a smontare l’esposto tempestivamente presentato dai Cacciola, cercando di provare che Maria Concetta non avesse alcun problema psichiatrico e non assumesse antidepressivi, come invece suggerito nell’esposto dei familiari.