Ragazzi per i quali la vita è un videogames e la reclusione reality show: scorci inquietanti di un modello (dis)educativo parallelo e sconfinato, ma incastonato, suo malgrado, nel nostro mondo.
Le foto e i selfie scattati nel carcere di Airola dai detenuti e pubblicate dagli stessi sui social, pompati da frasi ad effetto, mostrano ragazzi che, in barba alla loro giovane età, stanno scontando pene derivanti da reati di camorra, omicidi, traffico di droga.
Camorristi già rodati e, al contempo, ragazzoni succubi delle mode del momento, schiavi della medesima smania di apparire che soggioga le menti dei loro coetanei, anche loro che dovrebbero vedersi impossibilitati a fruire di telefoni cellulari e connessione internet.
Un cellulare con scheda non intestata, invece, era in dotazione di quei ragazzi che tutti definiscono “baby boss”, ma che altro non sono che il risultato finale del connubio tra il desiderio di emulare, rispettare ed onorare le figure della “vecchia camorra” che li hanno indottrinati e l’ossequioso rispetto delle mode del momento.
I social rivendicano con autorità la fama di canale preferenziale del quale la camorra si serve per amplificare il messaggio malavitoso ed accrescere consensi e affiliazione, intorno alle figure più capaci di meritarsi “la stima virtuale” dei followers: lo conferma l’ultima “malefatta” dei detenuti nel carcere di Airola, in provincia di Benevento, gli stessi che, un anno fa, diedero luogo ad una violenta rivolta, per dimostrare ai “capi” di essere pronti per “il salto di qualità” e di rilevare, quindi, le redini del clan, una volta scontata la pena.
Ponticelli, Secondigliano, Quartieri spagnoli: da zone grigie geograficamente dislocate, ma idealmente contigue, nasce la storia di quei ragazzi che converge in un unico copione. Quello che stanno scrivendo e al contempo recitando tra le mura di quel carcere.
Il raggiro delle regole, la capacità di sbeffeggiare le leggi dello Stato, ancora una volta, rappresenta il fulcro preponderante intorno al quale “la camorra in versione young” edifica un’immagine utile ad innalzare le quotazioni dei suoi interpreti. E i commenti che fioccano in coda alle immagini pubblicate uelloQanche su un profilo Facebook appositamente creato, lo comprovano.
«Airola livee»: questo “l’urlo di battaglia” dei giovani reclusi che rifacendosi agli hashtag più utilizzati e alla dilagante moda delle dirette sui social, sbattono in faccia alle istituzioni e all’opinione pubblica l’ennesimo stralcio di disfatta che dimostra quanto sia difficile, se non impossibile, il recupero sociale dei ragazzi che, fin dai primi vagiti, finiscono invischiati nelle briglie della malavita.
Un contatto social che serviva ai ragazzi per comunicare con parenti e amici fuori dal carcere.
I commenti delle fan e quelli delle madri, si alternavano a post in cui spiccavano emoticon dal contenuto eloquente: teste di poliziotto con pistole puntate alla tempia.
L’uso del registro comunicativo più calzante ed appropriato, l’ostentazione di t-shirt sulle quali sono stampate armi e pistole, le barbe folte, il disprezzo dello Stato che li ospita, urlato senza aprir bocca, semplicemente raggirando le regole ed imponendosi sulla scena social come il fenomeno virale più atteso e seguito del momento.
Basterà cancellare quei profili creati direttamente dal carcere per comunicare “live” dal carcere, per rimuovere dalla coscienza sociale uno dei segnali di resa più imbarazzanti del sistema penitenziario italiano?