Morta a Roma nella sua casa di via Flaminia l’attrice Elsa Martinelli. Lo si apprende da fonti vicine alla famiglia. Nata nel 1935 a Grosseto, era malata da tempo.
La vita di Elsa Martinelli, morta oggi, sabato 8 luglio, a Roma all’età di 82 anni, può essere paragonata ad una lunga favola tanto simile a quella di Cenerentola, compresa la scarpina fatata. Nel suo caso fu Gary Cooper ad accoglierla bevendo champagne in una scarpa della giovane diva come atto d’omaggio. Oppure pensando al modo «magico» in cui entrò nel jet-set, grazie al sarto Roberto Cappucci che la notò in una boutique di Via Frattina a Roma e subito la volle come mannequin per le sue sfilate; o ancora pensando al matrimonio aristocratico che la vide protagonista nel 1957 quando andò in sposa al conte Franco Mancinelli Scotti di San Vito, padre della sua unica figlia, Cristiana. Ma tutto questo non rende davvero omaggio alla ragazza di Grosseto, settima di otto figli, che aveva un padre ferroviere e una madre casalinga, eppure seppe costruirsi con naturalezza un’aura di eleganza e di sobria eccezionalità, tanto diversa dalle belle italiane della sua generazione, quella delle «maggiorate».
Elsa Martinelli, nata il 30 gennaio 1935, incarnò un fascino opposto e davvero poco italiano: magra, slanciata (era alta 1.76), capace di atteggiamenti da maschiaccio e portamento da gran dama, assomigliava più all’idea di divismo di Audrey Hepburn che alle Miss Italia degli anni ’50. Cassiera al bar o infilatrice di perline per aiutare l’economia di famiglia, finì quasi per caso sulle riviste di moda, entrò per scommessa nel mondo del cinema (le prime apparizioni nel ’53 con Se vincessi cento milioni di Carlo Campogalliani e L’uomo e il diavolo di Autant-Lara da Stendhal nel ’54), approdò sulle pagine della rivista Life e venne notata da Kirk Douglas, suo pigmalione per Il cacciatore di indiani di André de Toth del ’55. A quell’epoca non era facile per una piccola italiana approdare nel firmamento hollywoodiano benché a più d’una fosse pagato il biglietto di sola andata. Elsa Martinelli fece però subito eccezione: con testardaggine e quello spirito allegro quanto anticonformista che è la sua immagine più vivida, si fece immediatamente adottare dalla comunità dello star system. Piacque a registi e produttori, trovò in John Wayne un ammiratore tanto discreto quanto convinto (furono poi insieme in Hatari di Howard Hawks) e in Frank Sinatra un amante tanto passeggero quanto entusiasta. Ma la ragazza (nel ’56 aveva appena 21 anni) usò il biglietto di ritorno in Italia per seguire Mario Monicelli che le proponeva un ruolo da protagonista in Donatella. Scelta felice giacché il film, presentato al festival di Berlino, le valse il premio come migliore attrice. A quell’exploit seguirono La risaia di Matarazzo, titoli amati dal pubblico e soprattutto l’ambizioso, pasoliniano La notte brava di Mauro Bolognini (1959) e il più delicato Un amore a Roma di Dino Risi. Ormai proiettata però nel cono di luce della notorietà internazionale, Elsa si concede incursioni nel grande cinema d’autore internazionale in quegli anni ’60 che furono il suo momento di massimo splendore: con Roger Vadim (Il sangue e la rosa, 1960), Orson Welles (Il processo,1962), Henry Hathaway (Il grande safari, 1963), Elio Petri (La decima vittima, a fianco di Marcello Mastroianni nel film meno italiano del regista), fino a L’amica di Alberto Lattuada, 1969).
Buona parte della sua carriera da instancabile signora del set (una settantina di pellicole in tutto) appartiene ai due decenni della sua giovinezza, gli anni ’50 e ’60, giacché già nel decennio successivo si concede sempre meno volentieri all’obiettivo del cinema in favore della televisione. Fa eccezione il suo bellissimo personaggio per Il garofano rosso di Luigi Faccini nel 1976. Ma il suo mondo è ormai un altro; frequenta il jet-set internazionale, incide un disco come cantante, è giornalista brillante e acuta, sposa in seconde nozze il fotografo e designer Willy Rizzo nel 1968, presenta addirittura il festival di Sanremo nel 1971. Chi in Italia voglia trovare una vera ambasciatrice per gli States, sa di doversi rivolgere a lei che tutti conosce e per nessuno si sottrae a un ricordo, un aneddoto, una confidenziale storia che diventa leggenda.
Come attrice si concederà un atteso ritorno, nel 2004 con la terza stagione della mini-serie Orgoglio e un ruolo da perfida tessitrice di intrighi che le calzava a pennello nonostante un carattere invece solare e dolce: «Del resto col mio fisico – disse – avrei mai potuto impersonare una vecchina che fa la calza»? Amava vivere, non ha mai fatto mistero del suo carattere passionale e focoso, viveva nella sua bella casa nei pressi di Piazza del Popolo e fino all’ultimo era un’icona e una gran dama dal portamento e dall’eleganza innata. Parlava bene sia il francese che l’inglese con la sua voce bassa e sensuale che tanti uomini aveva sedotto, era ironica e tagliente, ma mai cattiva nei giudizi, come ben si legge nella sua autobiografia del 1995 «Sono come sono, Dalla dolce vita e ritorno». Nel firmamento delle grandi dive italiane ha saputo ritagliarsi un posto che non ha eguali e oggi chi l’ha amata piange una donna che seppe sempre anticipare i tempi e guardare al passato con affetto, senza inutili nostalgie. I funerali martedì a Roma alle 11 nella Chiesa di Santa Maria del Popolo.