Anna Prestigiacomo aveva 15 anni quando venne trucidata da diversi colpi di fucile, nel rione San Lorenzo, a Palermo. Era il 26 giugno 1959.
La sorellina, Rosetta, di 11 anni, riconobbe in Michele Cusimano, un vicino di casa, il killer. Cusimano venne arrestato con il padre Girolamo. Al processo si scoprì che vari rancori dividevano le due famiglie.
Tra l’altro Cusimano aveva chiesto in moglie Graziella Trapani, zia materna di Anna, ottenendone un rifiuto. Venne a galla anche che, tredici anni prima, il padre di Anna, Francesco, aveva convinto Cusimano a costituirsi ai carabinieri dopo un conflitto a fuoco. E così era stato bollato come un “confidente dei carabinieri”.
In primo grado Cusimano venne assolto con tanto di baci e abbracci da parte del suo avvocato, il principe del foro palermitano, nonché deputato alla camera e sottosegretario alla Difesa, Giacomo Bellavista.
In appello, però, le cose andarono diversamente. Cusimano vene condannato, seppur con il riconoscimento di alcune attenuanti.
La diciottenne Cristina Mazzotti, invece, il 26 giugno del 1975, morì di stenti. I genitori, ignari della triste fine della loro figlia, pagarono un riscatto di un miliardo e 50 milioni (pari a 5,5 milioni di euro di oggi). Cristina fu rapita sotto gli occhi dei suoi amici.
59 omicidi nella sola Calabria in quell’anno, 150 in media per una decina d’anni nella provincia di Milano, ovunque rapine a mano armata, episodi di terrorismo, rivolte delle carceri e una criminalità sempre più organizzata, brutale e pericolosa. I sequestri di persona nell’arco di vent’anni furono circa 600. Cristina fu solo una delle tante vittime. Le vicende del suo rapimento furono però particolarmente seguite dai media d’allora e commossero l’Italia. In un certo senso, rappresentano uno spartiacque nel modo d’agire della delinquenza professionale. Fu, infatti, il primo avvenuto al Nord di cui si conosca il coinvolgimento di bande legate alla ‘ndrangheta. Cristina fu “prelevata” senza usare violenza, non si ribellò e sembrò quasi obbediente a un ordine; in realtà, la ragazza non oppose resistenza per evitare di coinvolgere gli amici presenti nella vettura in cui si trovava in quel momento, bloccata dai rapitori sulla strada per Longone al Segrino. Tornavano, verso casa, a Eupilio, nel Comasco.
Ad agire una “banda mista”, composta da persone native della Lombardia, ideatrici fra l’altro del rapimento, e della Calabria vicina alle cosche. La gestione del rapimento finì ben presto in Calabria, a Lamezia Terme, nelle mani di Antonino Giacobbe, indiziato per un altro rapimento avvenuto in Calabria e per essere il mandante (poi assolto al processo) dell’omicidio di Francesco Ferlaino, uno dei primi magistrati antimafia, avvenuto due giorni dopo il rapimento di Cristina. La ragazza non fu trasferita in Calabria, come avverrà per i numerosi sequestri successivi, rimase sempre in un luogo vicino al rapimento. Un inquirente avrà modo di osservare che se invece fosse stata trasferita nelle zone impervie dell’Aspromonte, avrebbe avuto più chance di sopravvivere.
Responsabile della custodia è Giuliano Angelini, geometra, 39 anni, un pregiudicato coinvolto in un giro di tir rubati e addirittura in un traffico di armi; il suo nome era perfino emerso fra gli estremisti di destra collegati all’inchiesta sulla strage di piazza Fontana nel 1969. Comanda un gruppo di quattro o cinque uomini poco esperti. L’Angelini si diletta di medicina e alterna personalmente la somministrazione di farmaci soporiferi a eccitanti, questi secondi, per ammissione dello stesso Angelini, utilizzati soprattutto quando si trattava di dover scrivere alla famiglia, al fine di ottenere dalle lettere il massimo delle espressioni ansiose e angosciare maggiormente i genitori. Questi ultimi, effettivamente, ipotecando la casa affrettarono il pagamento del riscatto, pari a un miliardo e 50 milioni di lire, avvenuto tramite consegna effettuata da familiari.
La ragazza è tenuta in uno spazio umido, scavato nel terreno di un garage a Castelletto Ticino, non può nemmeno alzarsi in piedi; il fisico debilitato non regge lo stress e un mese dopo il rapimento la ragazza è in fin di vita. Non è chiaro come avvenne il decesso, datato il giorno prima del pagamento del riscatto dai famigliari ignari della tragica conclusione. Prima della povera Cristina, in zona si erano già verificati altri tre rapimenti finiti tragicamente nonostante il pagamento del riscatto, ma secondo l’assassino la ragazza non aveva mai visto in volto i suoi carcerieri, per cui non c’era ragione di sopprimerla. Angelini sostenne che la morte della ragazza incorse dopo l’ultima somministrazione di valium; per gli inquirenti si affacciò l’ipotesi che fosse stata uccisa a bastonate in una discarica vicina alla prigionia, a Varallino di Galliate, dov’era stata portata probabilmente ancora in coma. E lì, in effetti, fu trovato i corpo, ma solo un mese dopo, alla fine di agosto.
Le indagini brancolarono nel buio, fino a quando uno del gruppo legato all’Angelini commise un errore fatale. L’Angelini e i suoi complici ricevettero un compenso di “appena” 104 milioni di lire, il 10% del riscatto e meno di quanto pattuito con i calabresi. La scusa addotta dal Giacobbe fu che la ragazza era morta, una negligenza che indubbiamente complicava notevolmente le cose. Non solo: Giacobbe pretese che uno dei “custodi” si assumesse le responsabilità del rapimento, per attirare solo su di lui le indagini. Ma, appena ricevuta la somma, uno dei complici dell’Angelini, Libero Ballinari, colui che aveva portato il corpo in discarica, esperto esportatore di valuta, pensa bene di traferire subito i soldi in Svizzera per “ripulirli”. Qui avviene l’imprevisto: il dipendente della banca avverte la polizia cantonale dell’anomalo versamento di una grossa somma da parte del cliente; gli svizzeri, peraltro convinti che la ragazza fosse ancora viva, avvertono subito la polizia italiana che si mette a indagare sull’esportatore di valuta, scoprendo che è una persona nota alla famiglia Mazzotti.
Gli interrogatori, i pedinamenti e le intercettazioni telefoniche portano all’Angelini e alla sua banda; una perquisizione permette di trovare oggetti appartenenti alla ragazza, tra cui un orologio Rolex, detenuti in casa dell’Angelini e della convivente. La confessione del Ballinari condurrà al luogo dove era nascosto il corpo di Cristina, al nome dei complici e dei calabresi coinvolti, ma stranamente non di chi aveva eseguito materialmente il sequestro. Si saprà molti anni dopo, solo nel 2008, che uno di questi era Demetrio Latella, detto Luciano, allora un coetaneo di Cristina, ma già pericolosissimo, legato alla banda del catanese Angelo Epaminonda. Grazie all’impronta di un dito pollice lasciato sull’auto dove si trovava la rapita e all’aiuto che l’elettronica oggi è in grado di fornire alla Polizia scientifica, si poté risalire al personaggio.
Vi fu una seconda vittima nella famiglia Mazzotti. Il padre della ragazza, Elios, sette mesi dopo la scoperta del corpo della figlia, non reggendo al dolore, morì d’infarto in Argentina, dove si trovava per lavoro. La famiglia, da sempre sensibile e attenta ai problemi sociali, dichiarò ai giornali di allora d’essere contraria alla pena di morte per i rapitori, la cui reintroduzione era invocata a gran voce dall’opinione pubblica e invece di cercare di dimenticare, all’opposto volle ricordare per sempre. Fu il padre a esprimere il desiderio di creare, per onorarne la gioventù distrutta, una Fondazione intitolata a Cristina, il cui scopo doveva essere aiutare le famiglie colpite dai sequestri di persona, oltre a dedicarsi al recupero dei giovani con problematiche sociali.