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19 Giugno 1991: a Capaci, i fratelli e imprenditori Giuseppe e Salvatore Sceusa, uccisi e sciolti nell’acido

Redazione Napolitan di Redazione Napolitan
19 Giugno, 2017
in Da Sud a Sud
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19 Giugno 1991: a Capaci, i fratelli e imprenditori Giuseppe e Salvatore Sceusa, uccisi e sciolti nell’acido
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arton15007 19 giugno 1991, Capaci (Palermo) – Due fratelli sparirono nel nulla un pomeriggio di giugno. Attirati in un tranello, uccisi e sciolti nell’ acido.

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A volere quel duplice omicidio fu il boss di Caccamo, Nino Giuffrè. Le vittime, i fratelli Giuseppe e Salvatore Sceusa, piccoli imprenditori edili di Cerda, smaniosi di compiere il salto di qualità nel mondo degli appalti, furono consegnati ai loro carnefici da un mafioso in doppiopetto. Fu Giuseppe Biondolillo, già sindaco di Cerda e garante dell’ascesa dei due fratelli, a consegnarli ai carnefici. Li accompagnò in una villetta di Carini e li lasciò in balia dei boia di Resuttana.

Le indagini sugli imprenditori, spariti dopo un viaggio a Palermo il pomeriggio del 19 giugno del 1991, avevano avuto un iter travagliato. Le ricerche dei due fratelli, iniziate dal padre e proseguite dalla polizia, avevano portato solo alla scoperta delle due auto. Quella di Giuseppe, un’Alfa 164, fu trovata a Buonfornello quasi subito. L’ altra, identica alla prima, di proprietà di Salvatore, fu ritrovata in piazza Mandorle a Tommaso Natale, il 15 luglio del 1991. I testimoni raccontarono di averla notata parcheggiata lì almeno da una ventina di giorni. Ricostruendo gli appuntamenti degli Sceusa, si accertò che erano stati presso lo studio dell’ingegnere Salvatore Lanzalaco, grand commis degli appalti spartiti in provincia.

Uno degli Sceusa fu strangolato nella villa di un professore universitario che era stata affittata fino a essere nella disponibilità di Erasmo Troia, catturato a Toronto, nel dicembre del 1998. L’ altro fu ucciso in giardino. Biondolillo glieli aveva portati dopo aver discusso con loro nello studio di Lanzalaco. Li aveva attirati in trappola sostenendo di dovergli mostrare un lotto di terreno dove potevano essere fatti degli investimenti. Lo squadrone della morte attendeva da giorni l’ appuntamento per la consegna dei due fratelli. Appena giunti nella casa di contrada Giampaolo, Biondolillo, si allontanò rapidamente, preoccupandosi di costituirsi un alibi. Prima una sosta al distributore di benzina di Caracoli, poi un incontro fino a tarda sera con alcuni bancari di Cerda. Dallo studio di Lanzalaco era andato via alle 16, congedandosi e lasciando lì gli Sceusa. Intorno alle 17.30 era già a Caracoli. A riempire quel buco di un’ora e mezza c’ è il racconto dei collaboratori di giustizia che lo videro arrivare davanti alla villa con i due da uccidere e andarsene via con Nino Giuffrè. Delle vittime i pentiti non sanno neppure i nomi, ma ricordano che uno dei due portava al polso un Cartier Santos.

I due imprenditori non avevano chiesto la dovuta autorizzazione e non avevano pagato la dovuta tangente per effettuare dei lavori in una certa zona.

Attraverso le testimonianze dei collaboratori di giustizia, emerge anche il coinvolgimento di Riina nella punizione inflitta dalla mafia ai fratelli Sceusa. Dopo averli uccisi, il carnefice perquisì personalmente i cadaveri «per leggere i bigliettini che avevano addosso e togliere gli orologi e gli oggetti d’ oro». Al momento di scioglierli nell’ acido l’uomo mandato da Riina gli disse che poteva andare: «A me sembrava poco bello per una questione di principio, ma lui ha insistito e io me ne sono andato». Un altro pentito ha raccontato che Giuffrè si accanì contro le vittime «sputando contro di loro e maltrattandoli».

I giudici della Corte d’ assise d’ appello hanno infatti ritenuto colpevoli per l’ omicidio dei fratelli Giuseppe e Salvatore Sceusa anche il boss Salvatore Biondino, Rosolino Rizzo, Salvatore Biondo (detto “il corto”), Antonino Troia e Giovanni Battaglia.

Gli Sceusa, imprenditori di Cerda, vennero uccisi e poi sciolti nell’ acido perché si erano ribellati al pagamento del pizzo che gli veniva imposto dalla cosca mafiosa di Nino Giuffrè, già condannato con pena definitiva a 15 anni.

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