È un giorno particolare quello che si sta respirando lungo le vie dei Decumani, dove riecheggia ancora il mito di Emanuele Sibillo, il giovane fautore della prima “paranza dei bimbi” insorta tra i vicoli del centro storico napoletano, ucciso alle 2 di notte del 2 luglio del 2015 all’età di 20 anni, durante il tentativo di mettere a segno una “stesa” lungo via Oronzio Costa, quartier generale del cartello criminale rivale, quello dei Buonerba.
Durante la giornata di oggi, mercoledì 16 maggio, la Polizia ha eseguito un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di cinque persone, ritenute contigue proprio al clan Buonerba, sodalizio criminale alleato con i Mazzarella.
Le persone raggiunte dal provvedimento sono “menti e braccia”, organizzatori, mandanti ed esecutori dell’omicidio del baby boss Emanuele Sibillo.
La notte tra l’1 e il 2 luglio, il corpo senza vita del 20enne boss venne scaricato davanti al piazzale del pronto soccorso dell’ospedale Loreto Mare di Napoli.
Seppure fosse stato raggiunto da un proiettile nella strada sita nei pressi di Porta Capuana, qualcuno cercato di salvargli la vita, ma quando si era reso conto che per il leader della paranza dei bimbi non c’era più nulla da fare, ha preferito non imbattersi in ulteriori “guai”.
Poco dopo la polizia ha ritrovato all’esterno dell’ospedale una Honda Transalp abbandonata che è intestata ad un pregiudicato che però si è reso irreperibile. Forse si trattava proprio della moto con la quale è stato soccorso Sibillo.
I cinque destinatari delle misure cautelari, emesse dal gip di Napoli su richiesta della Direzione distrettuale antimafia, sono ritenuti responsabili anche del tentato omicidio del 29 giugno del 2016, ai danni di tre minori all’epoca dei fatti, tutti ritenuti appartenenti al gruppo camorristico dei Sibillo, capeggiato dai fratelli Emanuele e Pasquale, quest’ultimo arrestato pochi mesi dopo la morte del fratello, al culmine di svariati mesi di latitanza.
Un omicidio di spessore, quello di Emanuele Sibillo, il più fragoroso di una lunga scia di sangue che animò la faida di camorra che teneva banco a Forcella nell’estate del 2015.
“I ribelli di via Oronzio Costa”: così si erano ribattezzati i giovani gregari del gruppo dei Buonerba che avevano dichiarato guerra al cartello di camorra delle famiglie Amirante, Brunetti, Giuliano e Sibillo per il controllo degli affari illeciti nella zona di Forcella, nel centro storico di Napoli. Un cartello che mirava a monopolizzare il controllo sul malaffare (in primis droga e estorsioni a pizzerie, ambulanti e prostitute) tra via Tribunali, Forcella e la Maddalena.
Non ci stava Emanuele, lui voleva essere una sorta di “Robin Hood della camorra” e per riuscirci doveva riuscire a conquistare il controllo di tutti i traffici illeciti della zona.
Sparava ed uccideva con un intento ben chiaro, Emanuele: riscattare le sorti del luogo in cui, per questa ragione, veniva e viene tutt’ora visto, come una sorta di divinità. Era un ragazzo generoso e molto carismatico e per questo fu capace di creare una forte affiliazione intorno alla sua figura che beneficiava anche e soprattutto del “consenso” di persone non direttamente coinvolte nelle dinamiche e nelle attività camorristiche.
L’altare votivo erto in sua memoria nel porticato del palazzo di famiglia, con tanto di statua ed iniziali bardate, è la riprova di quanto Emanuele è stato amato e lo è tuttora.
Emanuele Sibillo, rampollo di una delle famiglie più addentrate nelle attività malavitose del centro storico napoletano, aveva appena 17 anni quando, nell’ambito di un blitz nel bel mezzo di una riunione tra “pezzi da 90”, fu sorpreso seduto al tavolo al quale si discuteva di “affari”.
Emanuele conosceva bene “le regole della camorra” e le ha servite e rispettate, fino alla fine, scegliendo di morire “da eroe”.
Per tre settimane aveva vissuto stretto in una morsa che, di giorno in giorno, si assottigliava sempre di più: da un lato le forze dell’ordine, dall’altro i gregari del clan rivale.
I primi lo cercavano per arrestarlo, i secondi per farlo fuori. E, alla fine, ad avere la meglio è stata la camorra, aiutata e favorita dalla scelta maturata da Emanuele, con cognizione di causa.
Sfuggito all’arresto nell’ambito di un blitz avvenuto all’alba del 9 giugno 2015 che portò all’arresto di 60 persone, Emanuele Sibillo era ricercato per l’accusa di associazione a delinquere di stampo camorristico e estorsione, e dalla Procura per i minorenni era indagato per alcune azioni armate, come presunto mandante di un‘aggressione ordinata per vendetta, per il ferimento di uomo del clan Mazzarella e tra i presunti istigatori dell’omicidio di un ragazzo nel parcheggio di una discoteca per una sigaretta negata.
Emanuele, dunque, riuscì a evitare le manette ed era in fuga assieme al fratello Pasquale, detto Lino, che dopo la sua morte, diventa il ricercato numero uno.
La latitanza del giovane Sibillo è durata 21 giorni e si è interrotta bruscamente la notte del 2 luglio dello stesso anno, quando lasciò il rifugio-bunker nel Rione Conocal di Ponticelli – roccaforte del clan D’Amico che gli aveva offerto protezione ed appoggio – per recarsi in via Oronzio Costa, regno dei rivali del clan Buonerba.
Doveva farlo, doveva “fare una stesa” lungo quella strada: i rivali dovevano temerlo e i suoi fedelissimi dovevano continuare a servirlo e rispettarlo.
Nei giorni precedenti all’agguato costato la vita ad Emanuele Sibillo, si erano verificati tre raid armati lungo quella stessa strada, in uno dei quali rimasero feriti tre giovanissimi contigui al clan Sibillo, raggiunti da colpi di arma da fuoco che oggi sappiamo che furono esplosi dalle stesse mani che hanno ucciso anche Emanuele. Stessa tecnica, stessa modalità esecutiva e stessa ferocia che contraddistingue anche l’agguato mortale che si consumò nel cuore della notte del 2 luglio 2015.
Intorno alle 2, almeno tre diverse pistole – una calibro nove, una 7,65 e una 38 – esplodono diversi colpi.
Un segnale che lascia presagire che in strada è in corso un vero e proprio conflitto a fuoco che vede coinvolte più persone.
A terra, il corpo di un ragazzo: Emanuele Sibillo, 20 anni, ras emergente della paranza dei bimbi di Forcella, ideatore della faida insorta per cacciare dal quartiere tutti i vecchi affiliati e fedelissimi al clan Mazzarella e riuscirci, stipulò un’alleanza con i giovanissimi della famiglia Giuliano: un patto siglato in nome degli affari legati allo spaccio della droga. Emanuele Sibillo muore, raggiunto da un solo colpo alla schiena.
In passato era accaduto che componenti della famiglia Sibillo finissero nel mirino dei clan rivali, ma si trattò sempre di avvertimenti o agguati falliti. Suo padre Vincenzo e suo fratello Pasquale riuscirono a mettersi in salvo. Emanuele è il primo membro della famiglia Sibillo a perdere la vita in un agguato.
La collera più grande per i Sibillo è proprio quel colpo inferto all’onore della famiglia: Emanuele viene colpito alle spalle, viene ucciso senza rispetto, secondo il codice della camorra, non tributandogli, quindi, un’esecuzione più confacente ad un boss.
Di solito, le figure di spessore dei sodalizi criminali vengono giustiziati con un colpo alla testa, sparare alle spalle, invece, secondo, le regole della camorra, è “una carognata”, perché priva la vittima della possibilità di fronteggiare il killer e ripudia, appunto, il codice d’onore della malavita.
Regole e codici, probabilmente, divenuti obsoleti adesso che “la camorra la fanno le nuove leve.”