Favara (Agrigento), 22 aprile 1999 – Stefano Pompeo, un bambino di 11 anni, viene ucciso in un agguato di mafia.
Il bimbo era con un amico del padre a bordo di un’auto, quando fu raggiunto da un colpo alla testa.
All’indomani dell’omicidio del ragazzino, nella sua scuola, nella sua classe, non viene proclamato il lutto, ma le lezioni si svolgono regolarmente.
Pochi giorni prima, a Randazzo, i sicari che dovevano ammazzare un commerciante, hanno colpito al cuore e alla testa un ragazzino di 13 anni, che solo per miracolo non è morto.
Una fortuna negata a Stefano che quel mercoledì sera è stato falciato da una scarica di lupara mentre si trovava a bordo del fuoristrada di un pregiudicato, Carmelo Cusumano. Un personaggio imparentato con uomini d’onore della mafia agrigentina, che sicuramente era già stato condannato a morte. Solo che sulla sua vettura c’era un giovanotto di 29 anni, Enzo Quaranta, che aveva preso a bordo il piccolo Stefano. Stefano ci teneva a fare un giro sul grosso Toyota e la commissione affidata a Quaranta era stata l’occasione buona. Insieme erano partiti per andare a comprare del pane al villaggio Mosé, mentre nella villetta di Cusumano si consumava il rito barbaro della macellazione in casa di un maiale, per festeggiare con una colossale abbuffata l’acquisto di una cava da parte del pregiudicato. Un uomo ricco, anche se in odor di mafia, che ci teneva a celebrare degnamente l’aumento della sua «roba». Il padre di Stefano, che lavora come macellaio, era stato reclutato per sgozzare l’animale e si era portato dietro il ragazzino. Il fuoristrada percorre pochi chilometri fino alla contrada «Ciavola Costa d’Inverno». Stefano è affascinato dalla vettura e, forse, neppure si accorge delle due auto che, d’improvviso, tagliano la strada al mezzo, costringendo Enzo Quaranta ad una brusca frenata. Poi partono le scariche di proiettili e la vita di Stefano finisce in un attimo. Inutile la corsa fino all’ospedale di Agrigento. I carabinieri non hanno dubbi: l’obiettivo era certamente Cusumano. L’imprenditore sessantacinquenne è infatti imparentato con uno degli esponenti di spicco della famiglia agrigentina di Cosa Nostra, finito in galera l’anno precedente nel corso dell’operazione «Akragas», contro una delle famiglie mafiose più antiche e pericolose di Cosa Nostra. La mafia agrigentina ha da sempre un peso non indifferente nell’organigramma criminale siciliano e non è stato certo per un caso che Giovanni Brusca avesse scelto come suo ultimo rifugio una tranquilla villetta a pochi chilometri da Agrigento.
Inoltre, la mafia agrigentina, alcuni mesi prima, proprio a Favara, aveva lanciato un sinistro messaggio a Giancarlo Caselli, bruciando il teatro dove il giorno seguente il procuratore avrebbe dovuto tenere una conferenza. Per tutta la notte e per l’intera giornata Cusumano e Quaranta sono stati interrogati dai carabinieri e dal sostituto procuratore Giulia Lavia che conduce l’inchiesta. Sulla pista mafiosa non vi sono dubbi.
Il risveglio di Favara è stato a dir poco surreale. La vita, il mattino dopo l’agguato, scorre tranquillamente. Persino nella scuola frequentata da Stefano, sembra non sia accaduto nulla. «Ci ha avvertito il professore di matematica – racconta un compagno di classe di Stefano – ci ha detto che Stefano non era più con noi, era morto perché qualcuno gli aveva sparato. Lo abbiamo saputo così. Ci siamo messi a piangere. Poi la giornata è andata avanti come tutte le altre. Solo ad un certo punto è entrato il preside insieme ad un uomo con una telecamera».