16 Aprile 1972, Polistena (RC) – Domenico Cannata è un marmista di 47 anni, padre di quattro figli. Nella notte sente uno scoppio, si alza dal letto, controlla che moglie e figli siano tranquilli, si avvicina all’interruttore centrale, prova a staccarlo per evitare un incendio. Un altro scoppio, un ordigno. La famiglia trova il suo corpo dilaniato. Due attentati dinamitardi di pretta marca mafiosa si sono consumati quella notte a Polistena, un grosso centro della piana di Gioia Tauro, distante circa 75 chilometri da Reggio Calabria. Le due esplosioni, oltre agli ingenti danni causati agli edifici, hanno provocato la morte d Domenico, nato e residente a Polistena, in via Matrice 26. La prima esplosione è avvenuta alle ore 1,30. Una bomba ad alto potenziale è esplosa nella centralissima piazza della Repubblica presso la saracinesca di un bar di proprietà dei fratelli Andriello, un’agiata famiglia del luogo. L’esplosione ha mandato in frantumi tutta l’attrezzatura del bar. Cinque minuti dopo scoppiava una seconda bomba sul davanzale di una finestra della casa in cui viveva Domenico Cannata. La deflagrazione lo ha completamente investito.
Si è alzato e ha aperto la finestra per chiamare aiuto, ma una seconda carica esplosiva, che era stata collocata sul davanzale, lo ha colpito in pieno. L’uomo è morto alle 4.39 all’ospedale Santa Maria degli ungheresi dove era stato ricoverato. I fratelli Andriello e Espedito, quest’ultimo suocero del Cannata, tempo addietro avevano ricevuto delle lettere con la richiesta di trenta milioni che avrebbero dovuto pagare per essere «protetti».
Secondo gli inquirenti, la prima carica di tritolo è stata un tranello per far uscire il Cannata che abitava al primo piano dello stabile. Appena il marmista si è affacciato alla finestra, infatti, è esplosa la seconda carica, alla quale era stata attaccata una miccia più lunga. Gli attentatori hanno collocato i tempi delle due esplosioni con la massima precisione. La giunta di Polistena, convocata in seduta straordinaria dal sindaco, compagno Tripodi, ha deciso di assumere a proprio carico le spese per il funerale del Cannata e, indire il lutto cittadino per il giorno in cui si svolgeranno le esequie.
Viene riconosciuto vittima innocente della ‘ndrangheta solo nel 2005.
Reggio Calabria, 16 aprile 1993 – Giuseppe Marino ha 43 anni, è un vigile urbano e la sera del 16 aprile 1993 sta verificando il rispetto dell’ordinanza comunale che vieta il transito e la sosta di automobili e motocicli lungo il Corso Garibaldi, la principale arteria cittadina. Ribadito dal sindaco democristiano Giuseppe Reale, eletto nel 1993 dopo la tangentopoli che aveva travolto la Giunta Licandro, il provvedimento entrato in vigore da poco, ha prodotto non pochi mugugni e fatica ad essere accettato dagli automobilisti reggini.
Sono circa le 20:00 quando Marino ed il suo collega Orazio Palamara, di pattuglia nei pressi della Villa comunale, vengono raggiunti dai colpi esplosi a bruciapelo da una pistola calibro 9×21, un’arma da guerra che non lascia scampo al primo, morto sul colpo mentre sta salendo in macchina, e solo per un incrocio di casualità risparmia la vita al secondo. Pur senza escludere alcuna pista, gli inquirenti restringono quasi subito il campo delle indagini all’ambiente di lavoro, e nello specifico si concentrano sui bollettari dei due vigili urbani. Sembra plausibile che l’omicidio sia maturato proprio intorno all’attività di Marino, in ottemperanza all’ordinanza comunale. Sin da subito, tuttavia, le indagini sbattono contro la difficoltà di ricostruire la dinamica dell’agguato; gli investigatori non riescono ad acquisire testimonianze apprezzabili, nessun testimone diretto che sappia o abbia voglia di fornire informazioni utili nonostante l’omicidio sia avvenuto in un in una zona centralissima della città ed in un orario in cui la strada è ancora molto affollata. Un’incertezza che si rispecchia nelle varie ricostruzioni giornalistiche dell’accaduto: i principali quotidiani locali e nazionali non riescono a fornire una versione univoca dei fatti.
Quell’aprile del 1993 la città non sembra quasi accorgersi dell’accaduto. A parte qualche sparuto mazzo di fiori poggiato sul luogo dell’agguato, il resto è silenzio. La giunta Reale, dal canto suo, prova a scuotere l’intorpidita indifferenza della comunità reggina affiggendo un manifesto pubblico per invitare “tutta la popolazione a partecipare ai funerali di Marino come atto di ribellione contro la violenza e come affermazione corale della città a volere cambiare”. Ma dopo i funerali ufficiali – chiusa in uno stretto riserbo la famiglia avrebbe preferito una celebrazione più intima e raccolta ad Arangea, dove Marino viveva con la moglie Paola e le due figlie Lavinia e Maria – è l’oblio.