Donna Annalisa, detta Scianel, uno dei personaggi più verosimili che la camorra ha dato in prestito alla trama della seconda serie di “Gomorra”.
Mimica, gestualità, movenze, azioni, intenzioni, espressioni: in ogni rione, quartiere o vicolo del napoletano tenuto sotto scacco dalla camorra, è possibile imbattersi in una “donna Annalisa”. Un fenomeno in ascesa, quello delle “lady-camorra” che porta madri, mogli, donne anche giovanissime ad ereditare le redini del clan, in condizioni di “emergenza” derivanti da arresti o omicidi delle figure maschili più autorevoli dell’organizzazione.
Donne spregiudicate e cliniche, violente e devote allo spaccio della droga e alle altre attività illecite che seguitano a rappresentare il principale oggetto d’interesse dei clan. Soldi e potere, rispetto e fedeltà, onore e spietatezza: anche nella versione “in rosa” continuano ad essere questi i tratti distintivi e imprescindibili della camorra.
Donne che amano curarsi e coccolarsi, concedendosi regali lussuosi: abiti griffati, gioielli importanti, trucco e parrucco sempre impeccabili. Una femminilità esaltata ed ostentata, nettamente in antitesi con il ruolo, prettamente maschile, ricoperto all’interno del clan. Una donna sfacciatamente femminile, nell’estetica che ingloba il cervello di un camorrista, cinico e spietato.
Non tutti sanno che la prima donna ad aver inaugurato questo nuovo trend camorristico, va ricercata tra i grigi palazzoni del Lotto O di Ponticelli, in un’epoca in cui regnava una camorra ben diversa e lontana da quella dei baby-boss e delle “stese”.
Un’inversione di rotta che ha avuto inizio in un momento ben preciso. Teresa De Luca Bossa: questo il nome della prima “lady camorra” in grado di affermare l’equiparazione della figura femminile a quella maschile, anche in ambito malavitoso, riuscendo a diventare, di fatto, la prima donna-boss della storia della criminalità organizzata napoletana.
Donna Teresa, così veniva chiamata Teresa De Luca Bossa dai suoi fedelissimi. Moglie di Umberto De Luca Bossa, madre di Antonio, il boss più noto come “Tonino o’ sicc” che dopo “la gavetta” maturata come sanguinario e spietato killer del clan Sarno, fonda il suo cartello criminale che identifica proprio nel plesso “P4” del Lotto O di Ponticelli la sua roccaforte.
Quando Tonino finisce in manette è sua madre Teresa ad assumere il controllo del clan e lo fa da vero capo, nel religioso rispetto delle regole della “vecchia camorra”, alternando violenza e diplomazia.
Nel giugno del 2000, figura anche il nome di Donna Teresa tra quello dei 79 camorristi arrestati, accusati a vario titolo di aver partecipato all’omicidio di Luigi Amitrano, ucciso con un’autobomba due anni prima e nipote del boss Vincenzo Sarno. Era il 1998 e quell’auto fatta esplodere nei di via Argine, scosse e non poco l’ambiente della magistratura.
Si parlava di rapporti tra mafia e camorra che portarono la malavita partenopea ad adottare metodi e strumenti di morte peculiari delle potenti cosche siciliane.
Una bomba fatta esplodere per uccidere il luogotenente di uno dei clan più feroci e potenti della città: i Sarno. A premere il pulsante di morte, secondo le rime indagini, i rivali del clan Contini che potrebbero aver contattato gli esperti al soldo dei Corleonesi.
“Un patto d’ acciaio Napoli-Sicilia fondato sul traffico di droga e armi, come di grossi flussi di denaro sporco, per il controllo degli affari illeciti sul territorio. Una pericolosa alleanza chiesta e ottenuta dalla potente cosca dei Contini, roccaforte nei quartieri storici di Napoli, per stroncare i rivali dei clan Mazzarella e Sarno nella guerra che, da gennaio scorso, ha già lasciato per terra ventuno morti ammazzati tra le due famiglie. E per vincere la guerra, ora i clan armano i loro killer non più di mitragliette ma di sofisticati congegni elettronici.” Le cronache dell’epoca raccontano così quella vicenda, ma, in realtà, su quell’agguato c’è la firma dei De Luca Bossa.
Per donna Teresa, quindi, l’accusa è di associazione per delinquere di stampo mafioso in quanto, si legge negli atti, membro di quel cartello conosciuto come Alleanza di Secondigliano, accusa che le porta una condanna a 8 anni di reclusione alcuni dei quali passati in regime di carcere duro. Una pena severa che però non scalfisce minimamente la sua fede nel “sistema“ e che non le ha impedito, tornata in libertà, di riprendere il suo posto al vertice del clan.
Teresa intrecciò una relazione con Giuseppe Marfella, boss di Pianura, volta non solo a fortificare il suo clan, ma soprattutto ad ampliare il raggio d’azione del sodalizio criminale sotto il suo controllo. Un matrimonio che scagiona definitivamente la figura della “donna d’onore” che in un passato non tanto remoto era obbligata dal padre-boss a sposare uomini-simbolo appartenenti ad altri cartelli criminali per “allargare la famiglia” e, di riflesso, il volume degli affari. Tuttavia, fino a quel momento, anche quando si legava a un boss per amore, la donna doveva limitarsi ad esplicare il ruolo di moglie e madre.
Scarcerata dopo il primo arresto, Teresa, la regina del “Lotto 0” di Ponticelli, fece ritorno nella sua roccaforte in via Cleopatra il 13 novembre del 2009, accolta dai residenti del quartiere con tutti gli onori di casa. Gente in strada, applausi, baci, strette di mano, fuochi d’artificio, petardi ed una cena con tanto di brindisi finale.
49 giorni dopo, venne nuovamente arrestata: i rampolli del suo clan si erano presentati al cospetto di un imprenditore edile, imponendogli un’estorsione di 3000 euro. “Un regalo per donna Teresa”: questa la causale che i due gregari avevano affrancato a quella richiesta di pizzo.
La storia di Teresa funge da spartiacque e traghetta le donne verso un nuovo trend: complice il vuoto di potere maturato in seguito ad arresti ed omicidi delle figure maschili più in auge sul versante criminale, tuttavia, dietro la scelta delle donne che svestono il grembiule per impugnare le armi, si cela ben altro che una scelta obbligata e imposta dalle circostanze.
Oggi, Teresa De Luca Bossa ha 65 anni ed è la prima donna detenuta in regime di 41 bis.