Corleone, 28 marzo 1945: Calogero Comajanni non era un eroe, ma un uomo normale che cercava di sfamare la moglie e i suoi cinque figli, lavorando come guardia giurata. Anch’egli è una vittima innocente di mafia, ma non lo ricorda quasi nessuno.
Era semplicemente un uomo onesto, una persona perbene.
Seppure Corleone degli anni ’40 non era il posto migliore per esercitare un mestiere che in qualche modo avesse a che fare col rispetto della legge, lui ci provava lo stesso. Con equilibrio e buon senso, girava le campagne insieme alle altre guardie campestri, vigilava, dava consigli da buon padre di famiglia a qualche giovane scapestrato, tentato da qualche «scorciatoia» per uscire dalla miseria. Il 2 agosto 1944, Comajanni stava facendo il suo solito giro di perlustrazione. Con lui c’erano le guardie campestri Pietro Splendido e Pietro Cortimiglia. Ormai era piena estate e il grano delle campagne corleonesi era stato quasi tutto mietuto da migliaia di braccianti agricoli, molti dei quali provenienti ai comuni della fascia costiera. La sola manodopera locale, infatti, non era sufficiente e si doveva ricorrere a quella proveniente da Bagheria, Misilmeri, Villabate e Ficarazzi, dove la raccolta degli agrumi era terminata da un pezzo. All’improvviso, si accorsero che due giovani stavano arraffando covoni di grano, caricandoli sui muli. «Fermi! Che fate?», gridarono le guardie. Poi si avvicinarono e li videro in faccia. Erano Luciano Liggio e Vito Di Frisco. Alla vista degli agenti Liggio non fece una piega. Si lasciò arrestare e rimase in galera tre mesi. Ad ottobre uscì dal carcere in libertà provvisoria, ma i volti delle guardie che l’avevano arrestato non era riuscito a dimenticarli. Aveva un amico «Lucianeddu», un coetaneo di nome Giovanni Pasqua. «Cumpà – gli disse – gli sbirri che mi hanno arrestato non la devono passare liscia. A cominciare da quel Calogero Comajanni, tuo vicino di casa». E insieme studiarono un piano per levarselo di torno. L’occasione propizia sembrò presentarsi la sera del 27 marzo 1945, sei mesi dopo che la futura «primula rossa» era uscita dal carcere.
Calogero Comajanni stava rientrando nella sua casa di via Sferlazzo, in pieno centro storico, quando si vide seguito da due uomini incappucciati. Accelerò il passò, ma pure quelli accelerarono il loro. Con uno scatto felino, la guardia giurata fu svelta a guadagnare la porta di casa, cogliendo di sorpresa i due killer.
Il giorno dopo, di prima mattina, Calogero Comajanni pulì la stalla e poi uscì di casa per andare a buttare gli escrementi di animali nella vicina discarica. Fatti pochi passi, si accorse di avere dietro gli uomini della sera precedente. Si guardò intorno. Vide il portone aperto della stalla di un vicino di casa, provò a cercarvi riparo, ma quello glielo chiuse in faccia. Allora Comajanni capì e provò a tornare precipitosamente a casa. Fece appena in tempo a bussare, che uno dei due inseguitori gli sparò addosso due colpi di pistola. La porta si aprì e, nonostante già fosse ferito, l’uomo provò a salire i primi gradini. Fu raggiunto dai killer, che gli puntarono ancora addosso le loro armi. Comajanni si girò, guardò in faccia quello più vicino e lo riconobbe: era Giovanni Pasqua. «Giovanni, che fai?», gli gridò. Ma quello gli scaricò addosso altri colpi di pistola, ammazzandolo sul colpo. La guardia giurata aveva 45 anni. La scena raccapricciante fu vista anche dalla moglie e da Carmelo, il figlio più grande, che corse subito a prendere il fucile per sparare agli assassini del padre, ma fu fermato dalla madre, mentre i due killer si allontanavano a passo svelto.
«Ad ammazzare mio marito è stato Giovanni Pasqua insieme a Luciano Liggio!», disse Maddalena Ribaudo alle forze dell’ordine. E teneva stretti i suoi cinque figli: Carmelo di 22 anni, Emanuele di 19, Marianna di 16, Giuseppa di 13 e Calogero di appena 10 anni. Una vera donna-coraggio, che, insieme a tante altre di cui ci parla la storia, sfata il mito della Sicilia omertosa. Al coraggio di Maddalena, però, non seguì quello dello Stato, che non diede credito alla testimonianza di una vedova e, alla fine del ’49, il procedimento penale si concluse a carico di ignoti. Poi, la svolta. I carabinieri arrestarono Giovanni Pasqua, che confessò il delitto.
La Corte d’Assise di Palermo, con sentenza del 13 ottobre 1955, procedette all’assoluzione per insufficienza di prove sia di Luciano Liggio che di Giovanni Pasqua. Il 18 febbraio 1967, dopo altri 12 anni, la Corte di appello di Bari rigettava l’appello del pubblico ministero e confermava la sentenza di proscioglimento di primo grado. I giudici demolirono le accuse della moglie del Comajanni, perché «non erano coerenti» e costellate da «reticenze, contraddizioni e incertezze».