Vite al limite. Vite piene di paradossi e controsensi. Vite spezzate, ma anche recuperate. Vite giovani, ma già forgiate da quel genere di errori che nel regno della camorra si dice che “ti fanno diventare uomo”.
17 anni, una licenza media conseguita dopo aver prolungato la presenza tra i banchi scolastici più volte e nessuna voglia di diplomarsi. La storia di Michele è quella in cui possono rispecchiarsi tanti ragazzi nati nelle cosiddette “realtà difficili” e che hanno imparato a battagliare per sopravvivere.
La strada, la maestra più accreditata. Il sistema, il libro più quotato dal quale attingere le nozioni “realmente utili”.
Michele ci ha provato a fare dell’altro, ma gli è andata malissimo: “non lo so neanche io come convinsi al titolare di quel bar a prendermi a lavorare. Gli dissi un sacco di bugie, ma a fin di bene. Volevo solo lavorare. Facevo le consegne esterne, si può dire che il vassoio era più grande di me, non tenevo ancora 10 anni. I miei fratelli più grandi dicevano che ero il disonore della famiglia, perché per 20 euro a settima più qualche euro che apparavo con le mance, mi facevo vedere dalla gente mentre mi facevo fare la carità in mano e anche i ragazzi del mio rione mi prendevano in giro, dicevano che ero un femminiello – non ero un uomo – perché non tenevo il coraggio di entrare nel sistema – servire la camorra – e preferivo farmi sfruttare da un ubriacone. Non arrivai nemmeno alla fine del mese, quello, il proprietario del bar, veramente era un ubriacone, la moglie, invece, teneva la fissazione per i gratta e vinci e il 10 e lotto. Un bel giorno si trovarono dei soldi mancanti nella cassa. Il marito non poteva accusare la moglie, la moglie non poteva accusare il marito e ci andai di mezzo io.
Non ci arrivavo nemmeno alla cassa.
Quel bastardo mi abbuffò di mazzate, – mi riempì di botte – quando tornai a casa ebbi pure il resto dai fratelli miei. Ho sempre avuto il dubbio che fu un fatto combinato proprio dai miei fratelli per farmi mettere insieme a loro – portarmi a delinquere come facevano loro – e infatti così fu. Devo dire la verità, dopo un bel po’ di tempo, gliel’ho fatta veramente la rapina all’ubriacone. Sta ancora tremando di paura… è tutta colpa sua, se non mi cacciava, la mia vita era diversa.”
Gli amici di Michele, in realtà, gli contestano questa ricostruzione: dicono che è stato davvero lui a rubare i soldi dalla cassa e per coprire la malefatta li spese subito. Nasce un concitato battibecco, dal quale emerge, in tutta la sua cruda ferocia, questa cinica realtà: “nessuno te ne fa una colpa, in mezzo a noi non ci stanno santi. Tuo padre, i tuoi fratelli, hanno sempre fatto questo. Là dentro ti hanno messo loro per fare qualche rammaggio – reato – ti hanno picchiato perché hai bruciato il piano e ti sei fatto sgamare con un pollo. Ora perché vuoi fare il tipo buono!? Seppure uno vorrebbe crearsi una vita diversa, come fa a dirlo a un padre e a un fratello che servono il sistema? Dentro di te hai paura che perfino possono arrivare ad ucciderti, perché rinneghi quella vita. Anche se lo vorresti, devi nascondere di desiderare una vita diversa. Neanche di tuo padre e di tuo fratello ti puoi fidare: questa è la condanna scritta nel destino dei ragazzi come noi.”
Nelle terre di camorra accade pure questo: che un giovane arrivi a raccontare una storia diversa. Quella storia che, forse, avrebbe voluto vivere nella vita reale e alla quale si aggrappa per sfuggire alla ferocia di quell’esistenza che, invece, non gli lascia possibilità di scelta. Almeno nella fantasia, si possono mescolare le carte.