Giuseppe Letizia aveva appena compiuto 13 anni la notte di quel 10 marzo 1948. Era rimasto solo in campagna, in contrada “Malvello”, a Corleone, a custodire il piccolo gregge smagrito del padre. Come tanti altri ragazzini corleonesi, si era dovuto abituare presto alla dura vita di campagna.
Sapeva di doversi fare forza, sapeva che era suo dovere aiutare la famiglia, ma aveva lo stesso paura. Pensava alle calde braccia della mamma, alla sicurezza delle quattro mura di casa e a stento riuscì a cacciare indietro due grossi lacrimoni. All’improvviso trasalì per il rombo del motore di una macchina. Sgranò ali occhi nel buio della notte per cercare di vedere meglio, e distinse a malapena delle ombre.
«Mamma mia – disse a se stesso – e questi chi sono? Cosa vogliono?». Si fece ancora più piccolo e rimase fermo nella mangiatoia del casolare dove stava cercando di prendere sonno. Le ombre si avvicinavano, trascinando un’altra ombra urlante. «Che volete da me? Lasciatemi andare!», gridava l’ombra tra le ombre. Ma quelle non parlavano. Con un calcio aprirono la porta del casolare, che credevano disabitato, ed entrarono. Accesero una candela, ma la sua luce era troppo fioca per illuminare tutto lo stanzone. Poi cominciarono a colpire con pugni e calci “l’ombra” che urlava sempre di più. Il piccolo Giuseppe era terrorizzato dalla paura. Non fiatava per non farsi sentire. Poi vide tre grosse vampate e sentì i botti che squarciarono l’aria. “L’ombra” adesso non urlava più, rantolava per terra. Furono gli ultimi “fotogrammi” che gli rimasero negli occhi, poi il ragazzo svenne per il terrore. E lo trovò così il giorno dopo suo padre. Cercò di svegliarlo, ma quando il ragazzino aprì gli occhi aveva lo sguardo allucinato e urlava frasi sconnesse: «No, no, non uccidetelo! Che vi ha fatto? Lasciatelo stare!». “Ha la febbre… delira…”, pensò preoccupato il padre. Lo mise a cavallo del mulo e lo portò in paese, all’ospedale. Ai due medici, che gli si presentarono – il dott. Michele Navarra e il dott. Ignazio Dell’Aria – raccontò brevemente come aveva trovato il figlio e questi gli praticarono le prime cure. Ma, il giorno dopo, il piccolo Giuseppe mori.
Il caso sarebbe passato sotto silenzio, se “L’Unità” del 13 marzo ’48 non avesse pubblicato un articolo-shock in prima pagina: «C’è motivo di pensare, e molti in paese sono a pensarla così – scriveva il giornale – che il bambino sia stato involontariamente testimone dell’uccisione di Rizzotto e che le minacce e le intimidazioni lo abbiano talmente sconvolto da provocargli uno shock e come conseguenza di esso la morte». Ancora più esplicita “La Voce della Sicilia” del 21 marzo ‘48: «Un bimbo morente ha denunciato gli assassini che uccisero Placido Rizzotto nel feudo Malvello». E non ci volle molto a far risalire le cause della morte alle “cure” praticategli da Navarra, notoriamente capomafia di Corleone, e da Dell’Aria, che qualche giorno dopo chiuse il suo studio ed emigrò in Australia.
Giuseppe rappresenta uno dei tanti giovani siciliani costretti a lavorare fin da bambini. Ma il giovane Giuseppe ha la colpa di trovarsi nel posto sbagliato, mentre stavano assassinando Rizzotto. Il giovane Letizia fu ritrovato delirante l’indomani mattina dal padre e così fu portato all’Ospedale dei Bianchi di Corleone. Nei giornali di allora si legge che il giovane, mentre delirava, parlava di un contadino assassinato. Insomma si presume che sia stato un testimone involontario di un omicidio di mafia. Tre giorni dopo il giovane Giuseppe morì ufficialmente e genericamente per tossicosi, nell’ospedale diretto dal capomafia di Corleone dott. Michele Navarra, mandante proprio dell’omicidio di Placido Rizzotto. Il piccolo Giuseppe Letizia fu “curato” dal dott. Aira che poco dopo la morte del giovane partì senza alcun motivo per l’Australia. Sembrò una fuga. Alcuni giornali parlarono di avvelenamento, ma se non ci fu giustizia per Rizzotto per il giovane Giuseppe non se ne parlò per niente.