È la sera del 9 marzo del 1979. Sono da poco passate le 22,30 quando viene ucciso Michele Reina, segretario provinciale della DC a Palermo. L’uomo ha da poco lasciato la casa di un amico dove ha trascorso la serata e sta salendo in auto, dove lo attendono la moglie e due amici. I sicari si avvicinano e, da distanza ravvicinata gli sparano contro tre colpi di calibro 38, dandosi subito dopo alla fuga, a bordo di una Fiat Ritmo rubata poche ore prima; la targa applicata sull’auto risulterà più tardi appartenere ad una Fiat 128, anch’essa rubata intorno alle 19 del giorno stesso del delitto. Appena un’ora dopo, l’omicidio viene rivendicato con una telefonata anonima al centralino del “Giornale di Sicilia”: “Abbiamo giustiziato il mafioso Michele Reina” dice la voce che “firma” l’agguato a nome di “Prima linea”, in quel periodo uno dei gruppi armati più attivi del terrorismo rosso. L’indomani mattina, una seconda telefonata giunge al centralino del quotidiano palermitano della sera “L’Ora”. Il telefonista dice di parlare a nome delle “Brigate Rosse”, minaccia altri attentati e afferma: “Faremo una strage se non sarà scarcerato il capo delle Brigate Rosse, Renato Curcio”. Una pista, quella terroristica, che però agli investigatori appare subito inverosimile e che viene ritenuta con più probabilità una mossa di Cosa nostra per sviare le indagini.
L’omicidio di Reina avviene all’indomani di un accordo politico che il segretario provinciale della DC, aveva portato a termine con il Partito Comunista. Un accordo che, però, non aveva riscosso l’entusiasmo e l’approvazione di grande parte suo partito; la maggioranza, anzi, si era subito manifestata contraria. Le indagini si dirigono su due direzioni, due binari paralleli che, irrealmente, ad un certo punto si incontrano: la prima ipotesi, la più accreditata, è quella mafiosa; la seconda, quella privilegiata al Palazzo di Giustizia, è quella politica. Due piste che, come dicevamo, si incrociano. Tant’è che dopo un paio di giorni si parla, di un movente caratterizzato da un intreccio di interessi politico-mafiosi. Ai funerali di Reina – frattanto – partecipano i vertici della Democrazia Cristiana nazionale: il segretario nazionale Benigno Zaccagnini, l’uomo-ombra di Andreotti Franco Evangelisti, i siciliani Piersanti Mattarella, Salvo Lima, Giovanni Gioia e Mario D’Acquisto. Tre giorni dopo l’agguato mortale, giunge una nuova telefonata anonima al centralino del giornale “L’Ora”: “Non abbiamo giustiziato Michele Reina, anche se la mafia fa di tutto per addossarci questo delitto”. Passano pochi minuti e il telefono squilla ancora. Di nuovo l’anonimo: “Qui Prima Linea, abbiamo le prove di quanto detto poco fa. Faremo di tutto per farvele avere”. Delle telefonate al giornale “L’Ora” fa cenno l’allora capo della squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano: “Noi stiamo esaminando il delitto Reina come un fatto di sangue, senza privilegiare alcuna matrice. Certo, alla luce delle telefonate arrivate al centralino di un giornale palermitano le cose si incominciano a complicare”.
Le indagini proseguono, ma non portano a grosse novità, fino a quando il 16 luglio del 1984, davanti a Giovanni Falcone e al dirigente della Criminalpol Giovanni De Gennaro, Tommaso Buscetta inizia il suo lungo racconto su Cosa Nostra. Buscetta, in quei giorni, ha da poco compiuto 56 anni; ma il suo racconto parte da molto più lontano negli anni, dal 1963, dalla strage di Ciaculli, risalendo fino alla prima guerra di mafia e proseguendo fino all’ascesa al potere dei Corleonesi. Buscetta è un fiume in piena: descrive Cosa nostra nei minimi particolari e parla dei tanti, troppi, omicidi compiuti dagli uomini d’onore. Sull’uccisione di Michele Reina, in quel primo racconto verbalizzato dice: “Anche l’onorevole Reina è stato ucciso su mandato di Salvatore Riina”. “Eletto segretario provinciale della DC nell’anno 1976 – scrivono i giudici istruttori nell’ordinanza di rinvio a giudizio contro Greco Michele – il Reina era stato uno dei principali fautori e sostenitori della costituzione della nuova maggioranza interna alla DC. Dopo la sua elezione, aveva contribuito insieme a Rosario Nicoletti, allora segretario regionale, alla formazione della giunta Scoma, che rappresentava il primo momento di attuazione della politica di apertura alle sinistre. […] La fattiva dinamicità del Reina, alla cui base vi era forse anche una personale e pragmatica aspirazione ad accrescere il proprio personale peso politico, determinò una sua progressiva sovraesposizione […]” Solo otto anni più tardi, il 22 aprile del 1992, a Palermo si aprirà il processo per i cosiddetti “omicidi politici”: tra questi, anche quello di Michele Reina. Nell’aprile del 1999, dopo i primi due gradi di giudizio, il processo è approdato in Cassazione, dove sono state confermate sia l’impianto accusatorio che le pene irrogate. Con Salvatore Riina, sono stati condannati al carcere a vita Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Antonino Geraci.